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Perché l’Italia centrale è una questione centrale per l’Italia

Di Guido Castelli

Non è sufficiente curare solo i mali del passato, ma anche incentivare le prospettive per il futuro di questa vasta area dell’Appennino centrale che necessita di robuste e coerenti iniziative di ripresa economica e sociale. L’intervento di Guido Castelli, commissario straordinario del governo per la ricostruzione sisma 2016

C’è chi la indica come la “terza Italia”. È quel centro Italia che va dal Lazio alle Marche, dall’Abruzzo all’Umbria: esattamente le quattro regioni che poco o tanto coincidono con l’area del cratere del sisma del 2016. Alla storica questione meridionale e alla più recente questione settentrionale, c’è chi ha intuito di dover aggiungere una nuova “questione”, quella dell’Italia centrale. Non a caso, alla presentazione del Rapporto sulla Ricostruzione, pochi giorni fa, a Palazzo Chigi, è stato detto: “L’Italia centrale è una questione centrale per l’Italia”.

La coincidenza con il territorio ferito dal terremoto di sette anni fa – e di quello del 2009 più concentrato nella regione Abruzzo – mi suggerisce di non trascurare quella “posizione difficile ma unica” (e cito un recente editoriale sul Messaggero del professor Luca Diotallevi) in cui mi ha posto il recente incarico di Commissario straordinario per la ricostruzione e la rigenerazione delle aree di sisma.

Di più. La conversione in legge – lo scorso mese di marzo – del Decreto “Ricostruzione” ha posto in capo alla struttura commissariale una doppia funzione: oltre a essere il promotore della ricostruzione fisica, diventa anche il soggetto delegato alla riparazione, intesa come rigenerazione socio-economica dei territori colpiti dal sisma.

La “ricostruzione” è una tappa necessaria e dovuta, ma sarebbe insufficiente se non fosse accompagnata da altrettanto coerenti iniziative di “ripresa” economica e sociale. E questa è la condizione per poter rigenerare una comunità che già prima del sisma del 2016 ha dovuto registrare criticità dovute a una inadeguata infrastrutturazione – fisica e digitale – che ha finito per accentuare un progressivo spopolamento proprio nei luoghi dove affondano le radici storiche e culturali del nostro Paese.

Ricostruire e rigenerare questo territorio vuol dire innanzitutto riproporre le condizioni per renderlo “abitabile”, assicurando una viabilità adeguata, una connettività digitale essenziale, una scolarizzazione necessaria, una rete di protezione sociale vivace e una economia in ripresa.

Ma può voler dire di più: lavorare alla costruzione di un ruolo rinnovato e forte per questa macro-regione italiana. Una sorte di modello che leghi l’eredità storica, spirituale e naturale con la nuova economia sostenibile, una rete urbana equilibrata e connessa, una coesione sociale garantita da servizi e legami comunitari.

Con i provvedimenti del Dl “Ricostruzione” è stato possibile restituire fiducia e prospettiva a coloro che hanno scelto il coraggio della resilienza in quella che è ormai una sorta di macroregione, una “terza Italia” tra nord e sud della penisola.

Non è sufficiente curare solo i mali del passato, ma anche incentivare le prospettive per il futuro di questa vasta area dell’Appennino centrale che necessita di robuste e coerenti iniziative di ripresa economica e sociale. Sensibili passi in avanti sono stati compiuti in questi mesi in tal senso: penso alla proroga del Superbonus, all’accordo quadro sbloccato per la ricostruzione di 228 scuole del cratere e al miliardo e mezzo messo a bando a giugno per il miglioramento della viabilità al cratere. Bisogna continuare a lavorare senza sosta in questa direzione.

La struttura commissariale ha avuto anche la soddisfazione di poter avviare l’assegnazione dei primi 348 milioni (per 1301 progetti nelle quattro regioni) derivanti dal Fondo Complementare del Pnrr che ha finanziato il programma “Next Appennino”. E’ un percorso da proseguire, auspicabilmente con nuove risorse. D’altro canto, l’assegnazione di questi primi fondi è avvenuta nei giorni in cui si parla di un’Italia che non riesce a spendere le risorse pubbliche. Nell’Appennino centrale è stato dimostrato il contrario: si può spendere e investire. I finanziamenti pubblici non si sprecano e generano virtuose collaborazioni con il sistema privato: i 348 milioni assegnati generano complessivamente investimenti per quasi 600 milioni. Un “modello Appennino” per il Pnrr? Senza esagerare in enfasi e retorica, credo che sia giusto segnalare, oltre alle tante criticità, anche le “best practice”: e il programma “Next Appennino” è tra queste nell’orizzonte delle difficoltà del Pnrr.

Non ultimo mi sembra giusto notare che nel lavoro della struttura commissariale si sta realizzando un laboratorio di governance multilivello, dove al ruolo del Governo centrale si associa quello delle quattro Regioni e dei 138 Comuni dell’area del cratere. Una sintesi virtuosa di competenze e di responsabilità che danno vita a una sorta di “macroregione” capace di affrontare una criticità, trasformandola in opportunità di ripresa e di sviluppo. La sfida è all’inizio e con troppi anni di ritardo rispetto alla tragedia iniziata il 24 agosto del 2016. Ma ci sono le condizioni per elaborare un “modello” per il Paese.

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