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Le rinnovabili, i progetti e il diritto tiranno. L’intervento di Carmine Biello

Di Carmine Biello

Raggiungeremo l’obiettivo di 75 GW da realizzare dal 2024, tra solare ed eolico. Non è più in discussione se, ma solo quando. Molto però dipenderà da come

Quella contro i cambiamenti climatici è una lotta a tutto campo, multiforme, fatta di equilibri da comporre, simultanei, ma variabili. Prendiamo le rinnovabili, che ne sono un architrave. L’attesa accelerazione sembra sia in atto anche da noi: la nuova capacità di quest’anno, in soli cinque mesi, è già oltre i due terzi di quella dell’intero 2022, che a sua volta aveva quasi doppiato quella del 2021. Grazie in parte all’impulso Ue, il favor normativo è ai massimi e la stessa semplificazione amministrativa è almeno oltre la sufficienza; anche la giurisprudenza converge decisa verso quel favor, non poche recenti sentenze lo dimostrano. Ma il tempo stringe: gli obiettivi al 2030 non sono vicini, anche perché continuano affannosamente a crescere.

Fermiamo un dato: 75 GW da realizzare dal 2024, tra solare ed eolico. Ci arriveremo: non è più in discussione se, ma solo quando. Molto però dipenderà da come. I progetti presentati si sono moltiplicati vistosamente negli ultimi mesi: a marzo eravamo oltre i 180 GW con quelli large scale in stato avanzato di fattibilità, cioè già dotati di soluzioni di connessione almeno rilasciate e accettate; quasi a 250 GW con gli altri solo presentati.

È una buona notizia, purché la quantità non aumenti a scapito della qualità o a favore della speculazione: per le connessioni vige infatti il diritto del “primo arrivato”, non troppo oneroso da ottenere, e quindi non sappiamo quanto quei progetti siano i più adeguati, né se verranno mai realizzati.

Invece il sole e il vento sono risorse preziose e vanno sfruttate al meglio, là dove ci sono, al minor costo possibile per il sistema. Ma i progetti non sono tutti uguali e non basta che siano da fonte rinnovabile: oltre a conteggiare i GW, serve che ci siano gli impianti giusti al posto giusto e fattori come pendenze, esposizioni, distanze, progettazione, materiali, prossimità alle reti e ai consumi possono fare la differenza.

Secondo uno studio McKinsey, al netto di aree agricole e di vincoli vari (normativi, ambientali e tecnici), solo l’1% del nostro territorio (poco meno della Valle d’Aosta) sarebbe idoneo a ospitare efficacemente impianti solari a terra, comunque in competizione con altri possibili utilizzi: ne occuperemmo quasi la metà se i 75 GW attesi fossero tutti da solare. Tuttavia, una scelta dei siti ottimizzata, anziché casuale, consentirebbe di evitare oltre il 22% dei costi e di ricavare molta più produzione, compromettendo meno suolo.

Già, il consumo di suolo: a pari capacità, il solare e l’eolico a terra occupano superficie, sia pur in maniera reversibile, almeno dieci volte di più che non le fonti fossili (estrazione e trasporto inclusi), ma i siti di qualità sono fisiologicamente sempre meno e sempre più addensati: per l’eolico a terra in particolare, meno facile da localizzare opportunamente, specialmente in Italia. E comunque il suolo è una risorsa quantomai scarsa, oltre che preziosa, soprattutto da noi, dove a fine 2021 il territorio risultava per quasi il 20% già soggetto a degrado, con più del 10% del suolo utile già consumato.

Secondo Ispra oltre 90 GW potrebbero essere realizzati come tetti solari (pur escludendo centri storici, parcheggi e aree utili outdoor): anzi, Enea sostiene che solo gli edifici residenziali potrebbero ospitare più di 70 GW. Questo non richiederebbe altro suolo, privilegiando il consumo sul posto, e renderebbe le reti meno rigide, gli edifici più efficienti e le bollette più leggere. Peraltro, anche l’occupazione delle reti è un fattore cruciale: già rispetto a dicembre Terna dichiarava uno stato di criticità per sei regioni, due province e diciotto altre linee di Alta Tensione. Va da sé che si tratti delle aree del Sud, quelle con potenziale più di producibilità che di assorbimento.

Non ultimo, c’è il tema nuovo dell’eolico off-shore: impianti di taglia molto grande, altamente complessi e impegnativi da integrare in rete. A marzo Terna aveva rilasciato soluzioni di connessione per quasi 110 GW, già accettate per 26 GW. Ci sarebbe altro, ma già sin qui emerge chiara un’esigenza: quella di “filtrare”, sapendo che c’è poco da sbagliare e che non c’è solo la CO2 da combattere, ma anche il consumo di suolo, il deterioramento del paesaggio, dell’ecosistema e della biodiversità. Il grave susseguirsi di eventi estremi continua a ricordarcelo con durezza.

E poi c’è la burocrazia, con vizi e difetti, alla quale resta il compito spinoso di attuare il tutto e di contemperare il “pubblico interesse prevalente” delle rinnovabili con le altre variabili in gioco, entro il perimetro della sua discrezionalità. Un perimetro sfumato, che si vorrebbe vasto e inviolabile, in realtà perenne oggetto di discussioni e di tentati ridimensionamenti: da una parte un quadro di norme e di piani ancora ingarbugliato, talvolta incoerente, ora dominato da quel favor di cui si parlava; dall’altra le censure sempre più insistenti della giustizia amministrativa, che non manca di sovrascrivere i pareri negativi degli Enti, rimproverati a chiare lettere di giudizi poco fondati, di motivazioni insufficienti o di istruttorie poco approfondite.

Uno stigma non da poco, che non sconfina nel merito dei giudizi, ma ne intacca la credibilità: forse peggio. Neppure quel decisore che dovrebbe essere di ultima istanza (il Consiglio dei ministri) viene risparmiato, d’altronde censito non altro che come alta Amministrazione. Anche una recente ricerca I-Com conferma la diffusa “scarsa fiducia nelle valutazioni tecniche degli Enti preposti” come un ostacolo al dispiegarsi degli effetti delle semplificazioni e un varco per “la strumentalizzazione del dissenso”. Eppure, verrebbe da pensare che i processi e le valutazioni da cui scaturiscono eventuali pareri negativi siano solidi quanto quelli che portano a esiti positivi, se non di più: non è rassicurante dubitarne, anche perché, come detto, non è scontato che la qualità dei progetti sia sempre all’altezza. Ed è ingeneroso citare tutti i progetti presentati come “bloccati” o “in attesa di autorizzazione”.

Invece, la stessa premier lo ha ricordato, dovremmo essere all’inizio di una nuova stagione di rinnovato garantismo nei confronti dell’autorevolezza della “firma”, fondato sul ritrovato principio della fiducia: ne segnano la cifra il nuovo Codice Appalti e le ultime misure in tema di abuso di ufficio e di responsabilità erariale. E non a caso il Capo dello Stato ha messo in guardia l’ordine giudiziario da possibili esondazioni di ruolo, ricostruzioni “arbitrarie” e funzioni “direttamente creative”. Rilasciare un parere negativo non significa necessariamente ricadere nel Nimby, né attentare alla decarbonizzazione, ma può voler dire cercare di migliorare un progetto, aumentarne il consenso locale oppure preferirne un altro, più rispondente al bilanciamento di tutte le istanze in campo. In fondo è la prova che c’è discernimento e assunzione di responsabilità nell’azione amministrativa: che la “firma” è ancora tale e non si riduce a un “timbro”.

Meglio così, la Consulta stessa ne ha fatto un monito: neanche un diritto fondamentale da tutelare, per quanto primario, è bene che diventi mai “tiranno”.



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