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Cosa rimarrà dell’operazione nel campo di Jenin. L’analisi di Molle

Di Andrea Molle

Nel lungo periodo le parti potrebbero pagare un prezzo altissimo: l’aggravarsi della crisi di legittimità dell’Anp e la diminuzione della sicurezza di Israele. L’analisi di Andrea Molle (Start Insight)

L’appena conclusa operazione israeliana nel campo profughi di Jenin è stata salutata come un successo dai vertici civili e militari dello Stato Ebraico.

L’operazione, la più grande campagna militare che Israele abbia condotto nell’area dai tempi di Defensive Shield (2002) in occasione della rivolta palestinese nota come la seconda intifada, ha visto il dispiegamento di diverse unità delle forze terresti e per la prima volta in diversi anni l’impiego di bombardamenti aerei. Mentre il capo di stato maggiore delle Forze di difesa israeliane, Herzl Halevi, ne ha esaltato i risultati che comprendono arresti e la distruzione di importanti scorte di armamenti, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha elogiato l’operato delle forze che hanno distrutto diverse infrastrutture logistiche chiave del terrorismo palestinese.

Al di là delle critiche rivolte da molti sulla sua disproporzionalità, le ragioni alla base dell’operazione sono fondamentalmente le stesse con cui Israele ha giustificato tutti le precedenti incursioni a Jenin e Nablus: che queste città siano di fatto dei veri e propri rifugi per il terrorismo palestinese e le basi di partenza per attacchi contro soldati e civili in territorio israeliano. Si tratta di un problema reale che proprio le precedenti operazioni, di minor impatto sulla popolazione, non sembrano aver intaccato visto che nella prima metà di quest’anno si erano già registrati più di 50 attacchi. Per questo motivo, Israele ha optato per un intervento più deciso sotto il profilo cinetico.

Tuttavia, sebbene questa operazione possa essere considerata un successo dal punto di vista militare, dal punto di vista politico non risolve il problema di fondo che ha creato le condizioni affinché Jenin diventasse un vero e proprio santuario per il terrorismo: la decennale crisi di legittimità dell’Autorità nazionale palestinese, l’organo di autogoverno che esercita un controllo, seppur limitato, su quelle parti della Cisgiordania che non sono gestite direttamente da Israele.

Anzi, a detta di molti esperti del conflitto israelo-palestinese, questa operazione non farà che peggiorare questa situazione. Da anni infatti, l’Autorità Nazionale Palestinese non gode del supporto del popolo palestinese. In un sondaggio condotto nel Giugno 2023 dal Palestine Center for Policy and Survey Research, il 63% dei palestinesi residenti a Gaza e in Cisgiordania considera l’Anp come un ostacolo, laddove circa il 50% ritiene la causa palestinese si avvantaggerebbe del suo scioglimento. Secondo lo stesso sondaggio, l’80% degli intervistati ritiene anche che Mahmūd Abbās (Abu Mazen), il presidente dell’Anp eletto nel 2005 e mai contestato democraticamente, debba dimettersi. La grande impopolarità dell’Anp tra i palestinesi è dovuta principalmente all’alto livello di corruzione, alla palese incompetenza dei suoi funzionari e alla brutale azione di repressione del dissenso tramite arresti e torture. Pur essendoci chi nega l’evidenza, l’Anp è senza ombra di dubbio un’organizzazione autocratica e autoritaria. La prova è che i palestinesi non sono stati chiamati l’ultima volta a eleggere il loro presidente dal 2005 e le ultime elezioni legislative si sono svolte nel lontano 2006.

A causa del conflitto interno tra la fazione di Abbās, il partito Fatah, e il movimento Hamas che governa autonomamente l’enclave di Gaza, il Consiglio Legislativo Palestinese è totalmente disfunzionale e ciò ha permesso ad Abbās di governare tramite decreti presidenziali. Ma il declino democratico dell’Anp è anche il prodotto di un problema più profondo, ovvero che il sedicente organo di autogoverno palestinese ha da tempo perso la sua ragion d’essere e non è stata capace di evolversi. Creata nel 1994, l’Anp avrebbe dovuto limitarsi a essere un’istituzione transitoria, l’embrione di un futuro stato palestinese, fornendo servizi pubblici come l’istruzione e l’assistenza sanitaria e collaborare con l’esercito israeliano e i servizi di sicurezza dello stato ebraico al fine di prevenire i conflitti tra israeliani e palestinesi.

Con gli Accordi di Oslo si stabiliva infatti che questo organismo sarebbe rimasto in carica per non più di cinque anni, allo scadere dei quali Israele e l’Organizzazione per la liberazione della Palestina avrebbero dato vita alla cosiddetta soluzione dei due Stati. Dopo quasi trent’anni, l’esistenza stessa dell’Autorità nazionale palestinese nella sua forma originaria sancisce la morte, da ambo le parti, della volontà politica di arrivare a quella soluzione. Nel frattempo gli attacchi terroristici continuano e la terra dove nel 1994 i palestinesi si aspettavano di costruire le fondamenta di un nuovo stato è lentamente divorata dall’inesorabile avanzamento di insediamenti israeliani.

Oggi la maggior parte dei palestinesi, così come degli israeliani, ha rinunciato alla speranza di veder cessare il conflitto grazie a una separazione pacifica. In questo contesto, l’Anp non ha saputo maturare ed è ridotta ad un corrotto governo locale che controlla solo quel 40% della Cisgiordania in cui Israele preferisce non intervenire direttamente. Non c’è da meravigliarsi dunque se molti palestinesi la considerino come un facilitatore dell’occupazione israeliana, piuttosto che un mezzo per porvi fine agevolando la transizione verso la piena indipendenza.

L’effetto perverso di questa caratterizzazione ha anche fatto si che molti dei suoi esponenti, in particolare i membri delle sue forze di sicurezza, siano diventati sempre più riluttanti a collaborare con Israele, finendo paradossalmente per essere accusati da Tel Aviv di collaborare con il terrorismo. Di conseguenza, l’Anp ha gradualmente perso il controllo vaste aree come Jenin e Nablus, lasciando un vuoto di potere che è stato colmato da organizzazioni come Hamas e la Jihad islamica che, essendo sostenute in primis dall’Iran, hanno tutto l’interesse a perpetrare uno stato di conflitto permanente in Medioriente. L’innegabile successo dell’operazione militare, a cui l’Anp non ha saputo porre un freno, viene vista dai palestinesi come la conferma che l’organizzazione non promuove più i loro interessi.

Nel lungo periodo l’operazione appena conclusasi potrebbe dunque imporre alle parti un prezzo altissimo e cioè aggravare la crisi di legittimità dell’Anp e diminuire la sicurezza di Israele, incrementando quelle stesse dinamiche che hanno creato le condizioni per un’aumento dell’attività terroristica in Cisgiordania che proprio grazie a quanto accaduto negli ultimi giorni potrebbe avviarsi a diventare una seconda Striscia di Gaza.

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