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Phisikk du role – Le parole come pietre? No, come evanescenza

Forse i poteri pubblici potrebbero fare qualcosa di più per tutelare questo bene culturale, medium, da cui discendono tutti gli altri. Dare un’occhiata, per esempio, a quello che fanno i cugini francesi, per esempio, o anche spagnoli. Il commento di Pino Pisicchio

Se aveva ragione Heidegger quando diceva che riusciamo a pensare solo cose che possiamo nominare, che hanno cioè una parola che le identifica, allora, ragazzi, non siamo messi tanto bene. Perché le parole che hanno l’onore di entrare nel nostro universo lessicale non sono poi tante. Ma andiamo con ordine.

La nostra lingua è così lussureggiante da contare 427.000 parole secondo il data base enciclopedico e lessicale (fonte Treccani). Si dirà: “ma chi mai userà questa specie di via Lattea della parola nei suoi universi più remoti?”. Giusto, allora restringiamo (si fa per dire) il campo e affidiamoci a Tullio De Mauro, il grande linguista, il quale circoscrive i lemmi del nostro vocabolario in 260-270.000, compresi i neologismi. Ancora troppi? La domanda allora potrebbe essere: quante parole italiane “concretamente” vengono usate da una persona di cultura medio-alta? Risposta 47.000.

Ma uno che, pur non avendo titoli di studio particolarmente nobili, voglia interagire con gli italiani facendosi pienamente comprendere, insomma un “parlante” dalle esigenze basiche, quante parole dovrebbe usare? Almeno duemila ( sempre fonte Treccani). Bene, sotto questa soglia cominciamo ad avere difficoltà di comunicazione. Fin qui tutto chiaro, suppongo. A questo punto tiriamo fuori i numeri dell’ “essere” e non del “dover essere”: quante parole usano i nostri ragazzi?

Non più di trecento (fonte Ocse e Invalsi). Ecco, la galassia dell’Italiano, onusto di avi latini e greci, maneggiato con cura da Petrarca e Boccaccio, portato in Paradiso da Dante Alighieri, sublimato da parole inarrivabili e dense di pensiero da Leopardi, fatto sistema da Manzoni, innovato dai grandi del novecento, da Svevo a Pirandello, da Moravia a Gadda, da Aleramo a Pavese, Calvino, Buzzati, Pasolini, ridotta a trecento parole?

Proprio così. D’altro canto come potrebbe essere diversamente? Siamo colonizzati da un sottoprodotto sintetico di un inglese povero ma coerente con i canoni di velocità del capitalismo hard, che si impone col ritmo binario del digitale, luogo virtuale di vita virtuale di ragazzi virtualizzati. Libri? Vade retro satana. Giornali e cartastampata ? Per carità di dio. Il livello più alto di attingimento è Wikipedia per i più scrupolosi. Se pure la mamma e il papà sono adoratori del Dio social, magari quello più anzianotto di Facebook, che volete che possa accadere.

La tv? Anche a forzare la realtà facendo finta che il servizio pubblico promuova cultura e lessico fuori da Rai storia, resta il dato statistico di una diserzione di massa dal piccolo schermo da parte delle giovani generazioni che proprio non sanno più a che serve l’elettrodomestico. La scuola? Mi rifaccia la domanda, diceva Fantozzi. Insomma il declino dell’italiano come lingua, accompagna il declino dell’Italiano come dimensione di vita quotidiana.

Forse i poteri pubblici potrebbero fare qualcosa di più per tutelare questo “bene culturale” medium, da cui discendono tutti gli altri (perché come si fa a descrivere la bellezza della scultura di Bernini se non si posseggono parole, sfumature, capacità di concetti astratti?). Dare un’occhiata a quello che fanno i cugini francesi, per esempio, o anche spagnoli ( gli inglesi no, non ne hanno bisogno..) per la loro lingua male non sarebbe. Il Papa, che nell’area dei miracoli è di casa, porta l’italiano nel mondo: ispiriamoci a lui. Ma facciamo qualcosa, per favore: non perdiamo più tempo o il tempo perderà noi.

Ps: In questo articolo sono state usate 553 parole, 30 ripetute più di una volta.

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