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Una terapia per restituire ruolo e dignità al Parlamento

Di Pino Pisicchio e Luigi Tivelli

Oggi ci sono fin troppi fattori di debilitazione del Parlamento. Ecco quali e come intervenire secondo Pino Pisicchio, professore ordinario di Diritto pubblico comparato già deputato per 7 legislature e Luigi Tivelli, già consigliere parlamentare della Camera e della presidenza del Consiglio, presidente della Academy di cultura e politica Giovanni Spadolini

Un’intervista del ministro della Difesa, Guido Crosetto, già fondatore di Fratelli d’Italia, a Francesco Verderami di domenica 30 luglio, ricca di spunti e temi interessanti, si conclude con questa valutazione da parte del ministro che è considerato uno dei migliori esponenti del governo sul tema del Parlamento: “Sto dicendo che i parlamentari hanno tempistiche antiquate, molto lente, questa abitudine che il martedì si inizia a lavorare e il giovedì si finisce la trovo molto irritante. Va aumentata la produttività…”. Chiosa così sostanzialmente Crosetto. C’è in questa annotazione forse qualcosa di fondato, ma per altri versi ci sembra che la questione vera si ponga in termini ben diversi…

La questione dello stravolgimento del ruolo costituzionale del Parlamento è seria e di grande rilievo, ancorché trascurata, anche perché in questo Paese non esiste quasi il senso della memoria storica, neppure di quella a breve termine.

Risparmiamo ai lettori i diversi significati e le diverse letture di quella che si definiva “centralità del Parlamento”, anche in anni cruciali, come quelli della solidarietà nazionale tra 1976 e il 1978, nei quali, come negli anni pregressi del resto, si credeva di poter sostanzialmente governare dal Parlamento, associando così al ruolo di attore nell’esecutivo il Partito Comunista, polo “escluso” dal governo non per chissà quale conventio ad excludendum ma per insufficienza della necessaria capacità coalizionale.

Risparmiamo, inoltre, ai lettori anche i commenti sulla qualità eccelsa dei presidenti delle due Camere di qualche decennio fa (citiamo ex multis Spadolini, Pertini, Napolitano, e, più recentemente, Violante, Casini, Fini), sottraendoli volentieri al confronto con personalità del tempo a noi più vicino. Ma questa semmai è una significativa cartina di tornasole di ciò che, in termini di curriculum e cursus honorum degli eletti, ha caratterizzato tutta l’istituzione parlamentare.

Basterebbe, infatti, guardare alla XVII legislatura, quella nata nel 2013, che registrò più di un quarto dei componenti appartenenti ai Cinquestelle consacrati all’aperturra del Parlamento come una scatoletta di tonno, mission affidatagli dal sommo ideologo Beppe Grillo, scatoletta pericolosa, perché più di uno ci si è incastrato, non senza, tuttavia, aver prodotto al suo interno guasti irrimediabili, raggiunti pienamente nella successiva, con l’alacre collaborazione di tutti gli altri, si guardi al taglio dei parlamentari.

Vale la pena di soffermarsi sulla passata legislatura, che qualcuno considererà tra le peggiori per il Paese, almeno fino al governo Draghi. Fu nella XVIII legislatura, infatti, che il processo di spoliazione delle competenze parlamentari (che aveva avuto una sua epifania con l’avvento dei sistemi elettorali maggioritari) trovò il suo acme, per la concomitanza di tre infausti elementi: l’enorme afflusso di parlamentari senza nessuna esperienza istituzionale alle spalle, l’irrimediabile disomogeneità politica della maggioranza gialloverde e il dramma del Covid.

Fu quella la legislatura , infatti, dei Dpcm (decreti della presidenza del Consiglio) della qualità eccelsa di alcuni ministri di Conte, della totale esautorazione del Parlamento anche nelle fasi in cui era aperto, prima o dopo la pandemia. In sostanza la funzione legislativa era stata trasferita dal Parlamento al governo, portando a compimento un processo ormai trentennale, che ha ribaltato generosamente lo schema montesquieiano, riducendo il “legislativo” a mero strumento di ratifica delle scelte dell'”esecutivo”, senza ricevere in cambio risarcimenti nella funzione di “controllo”.

Il problema è che nella forma di governo parlamentare razionalizzata, così come individuata dai migliori costituenti, Parlamento e governo sono organi che simul stabunt vel simul cadent. In pratica, tanto più se c’è un governo forte c’è bisogno di un Parlamento forte. Il punto è che, se dopo 12 anni si registra un governo dotato di una solida investitura popolare e non poco forte di per sé, non si può dire altrettanto per le Assemblee di Camera e Senato: siamo di fronte, infatti, a un Parlamento più che mai debilitato, per cui la botta definitiva è venuta da una riduzione del numero dei parlamentari per la quale votarono quasi plebiscitariamente (il 97% alla Camera) dei parlamentari, affascinati da qualche dio minore populista (mentre il popolo più saggio avrebbe detto no al referendum nella misura del 30%).

Un altro fondamentale fattore di debilitazione del Parlamento è poi dato dal meccanismo cooptativo che mette nelle mani dei “capi”, o delle “cape” la scelta degli eletti, rubandola ai cittadini. Per un mistero glorioso che nessuno riesce a spiegare, infatti, da trent’anni i cittadini sono stati privati del potere di scelta degli eletti, ormai devoluto dal luglio 1993 al compilatore delle liste.

Le liste bloccate furono introdotte con il Mattarellum, che almeno aveva la pudicizia di contenere i cooptati nella misura del 25%, lasciando che il rimanente 75% fosse eletto col maggioritario nei collegi uninominali. Poi venne il Porcellum che tolse anche quella limitata parvenza di scelta dei collegi. Poi ci fu l’Italicum, subito bocciato dalla Corte Costituzionale, e, in ultimo, il Rosatellum, che somiglia un pò al brand di un vino nel cartone, ma di quelli andati a male da subito: tutto bloccato.

Un’attività riformistica compulsiva come quella italiana non ha precedenti nel mondo, né in quello democratico né in quello autoritario: in 25 anni si sono susseguite ben 5 leggi elettorali, partendo dal proporzionale iniziale. L’arcano è: come mai nei Comuni si vota il candidato preferito, così come nelle Regioni e persino al Parlamento europeo e poi, arrivati al Parlamento italiano non si può più? Mistero. Glorioso. È chiaro, però, che la divaricazione tra eletto ed elettore è definitiva e irriducibile. Un Parlamento così è ingessato dai compilatori delle liste: altro che art. 67 della Costituzione e il suo bel divieto di vincolo di mandato!

In questo contesto, dunque, il governo va avanti tramite decreti legge (anche quello Meloni, in attività compulsiva che ha fatto aumentare la media recente, già alta di suo), mentre il Parlamento, sulla base di uno scambio perverso, aggiunge in sede di trasformazione in legge dei decreti, per larga parte piccole norme amministrative, norme fotografia, magari su pressione di qualche lobby la cui attività guarda caso non è disciplinata né regolamentata (caso unico nelle democrazie occidentali). Per quanto riguarda l’attività legislativa che è il cuore della vita e dell’attività parlamentare, essa presenta ritardi enormi sulla nuova frontiera dei cambiamenti democratici ovvero quella del controllo.

Oggi i pur bravi costituzionalisti si sono lanciati sulla questione dell’elezione diretta del premier, ma ben poco sembrano dedicarsi alla questione del Parlamento che è cruciale per la nostra democrazia. Non ci pare che alla fin fine il governo brilli per coraggio riformatore. Si pensi, ad esempio, alla questione della concorrenza, cruciale per il Paese, per la crescita, anche al fine di rompere un sistema di clan, corporazioni e cerchi magici troppo disseminato.

Sostanzialmente, poi, sia il governo che il Parlamento soffrono gli effetti di una questione troppo poco indagata: quel 50-60% circa di astenuti alle ultime elezioni. Un Parlamento può vivere solo se riflette veramente la volontà dei cittadini e solo se a questi, che sono il vero principe accreditato di una democrazia, viene restituito lo scettro. Può essere lo scettro che deriva da una qualche forma di nuovo sistema elettorale, può essere lo scettro che deriva dalla possibilità di esprimere una preferenza, può essere lo scettro che deriva una qualche forma di riavvicinamento tra elettori ed eletti, ma senza restituire questo scettro ai cittadini ed elettori, avremmo solo un Parlamento di fatto più delegittimato e un governo che può anche coltivare illusioni di potenza, ma che rappresenta esclusivamente una parte limitata seppur significativa del corpus elettorale.

La questione legislativa è fondamentale e da troppo tempo affoga tra l’antica Scilla di Tacito per cui “corruptissima re publica plurimae leges” e la Scilla del miglior illuminismo del “L’esprit des Lois” di Montesquieu, per cui “le leggi inutili indeboliscono quelle necessarie”.

Se quindi non si affronta, finalmente, il nodo della quantità, qualità leggibilità della legislazione giustamente i cittadini si metteranno ancora più in fuga.

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