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Alla mostra di Venezia il corpo cyborg e lo scandalo della sessualità femminile

Poor things di Lanthimos mette in scena la domanda sul futuro del genere (umano e non) rileggendo la creatura di Frankenstein e la curva al femminismo contemporaneo. Ne esce un racconto spassoso e ironico, licenzioso e appassionato, radicale e impietoso. Chiara Buoncristiani ha visto il film per Formiche.net

La nipote di Frankenstein sovvertirà il mondo e le sue regole. Non lo farà come i cyborg che avevamo temuto e immaginato, ma a modo suo. Sarà una rivoluzione diversa da quella del suo creatore, un maschio. Lui voleva fare un esperimento per superare la morte. Lei vuole fare esperienza, scoprire il piacere della vita, imparare a tollerarne il dolore, non essere la creatura fredda di uno scienziato. La muove una spinta antica come il mondo, la pulsione sessuale, il corpo che si ribella e la rende curiosa, determinata, perfino spietata se c’è da rivendicare il proprio diritto a scoprire se stessa.

È la storia messa in scena in “Poor Things”, ovvero povere creature, presentato all’Ottantesima Mostra del Cinema di Venezia. Il titolo viene dal romanzo di Alasdair Gray del 1992, ma queste povere creature sono quegli esseri umani, maschi, bianchi, ricchi e potenti che fino a poco tempo fa avevano creduto in un progresso senza limiti e senza costi, fino nell’onnipotenza. Un “genere umano” che, invece, in questo film sognante che usa il registro del grottesco per bruciare ogni luogo comune e “dato per scontanto” è decostruito e ridicolizzato (quando non è sedotto) dall’autodeterminazione di Bella Baxter. Autodeterminazione femminile, ma anche autodeterminazione di ciò che veniva considerato “cosa” e invece diviene soggetto. Interpretata con maestria da Emma Stone, Bella Baxter è molto più potente di una learning machine.

Per il regista Yorgos Lanthimos è la seconda occasione dopo La favorita (2018) di trattare questi temi. Stavolta esplorandoli a partire dal corpo e dalla rivoluzione che parte dalla sessualità. Ovvero tutto quello che fa la differenza, quello che si mette di traverso e non si esaurisce come si può esaurire lo squilibrio provocato da un semplice “bisogni animale”. La sessualità ci rende umani, anzi ci rende quel singolare essere umano che siamo.

L’idea di usare il non umano, la bambola, l’oggetto evidentemente circola. Lo si ritrova anche in “Barbie”, che infatti comincia con la bambola iconica con pensieri di morte e termina con lei che si incarna e va dal ginecologo (quindi ha finalmente una vagina…).

Poor things può sembrare a tesi, quasi un derivato di quegli studi femministi e di genere che non a caso usano il concetto di decostruzione come strumento per svelare i meccanismi del potere e indicano nel nomadismo del soggetto la strategia per sovvertirne le dinamiche. Così Emma esce di casa, mette in discussione il destino da “sposa”, attraversa luoghi diversi, si perde, fa scandalo…

A essere la cifra della sua pulsione “sessuale” è soprattutto la sua insaziabile spinta a interrogarsi con domande implacabili e necessarie. Lanthimos rilegge così la creatura di Frankenstein e la curva al femminismo contemporaneo. Ne esce un racconto spassoso e ironico, licenzioso e appassionato, radicale e impietoso: c’è lieto fine solo per chi è in grado di trasformarsi.

Nella prima scena vediamo Victoria che si butta nel Tamigi, è incinta. A riportarla in vita lo scienziato pazzo Godwin, lui stesso oggetto di esperimento folle da parte del proprio padre. Victoria rinasce come Bella, priva di memoria perché Godwin, che le chiama “God” (Willem Dafoe), le impianta il cervello del feto. Mito di auto-generazione e potenza perturbante del corpo del mammifero femmina. Come dice Manuela Fraire nel recente “La porta delle madri”, la scienza e le tecnologie della fecondazione artificiale sono riuscite in quasi tutto, tranne nella sostituzione del corpo femminile nella gestazione del feto…

Bella Baxter, all’inizio del film ha la psiche di una neonata nel corpo di una donna, barcolla, balbetta, non conosce linguaggio, ha emozioni che non può controllare. Ma impara in fretta, tante parole al giorno: trova la coordinazione dei e molto più: il desiderio di affrancarsi da God e scoprire il mondo passa all’inizio per un uomo, che sembra inizialmente assecondare quello che God le dice “non è socialmente consentito”, ovvero trarre piacere dalla propria sessualità. Scappa con Duncan Wedderburn (Mark Ruffalo), un avvocato libertino che la inizia alle gioie del sesso e la porta prima a Lisbona. Ma Bella non ci sta a fare solo l’amante. Non sta chiusa in stanza come non sta chiusa in conversazione “appropriate” alle convenzioni. Duncan è geloso, la vorrebbe solo sua, ma lei non vede a che titolo lui si arroghi il diritto di “carcerarla”. A nulla serve che lui per tenerla sotto controllo la porti per mare, in crociera, in un luogo da cui non si scappa: oltre il sesso Duncan non ha nulla da offrire, soprattutto a chi fa domande scomode. Bella lo “fa uscire pazzo”, legge Emerson, vuole e prova a capire la natura del sesso, del denaro, del potere. Fa di testa propria, da “povera creatura” qual è: madre del suo cervello e anche figlia, se vogliamo, del suo corpo-mente, resuscitata dal maschile deve trovare la piena espressione del femminile. Passerà da un bordello di Parigi, libera dai pregiudizi ma dentro il suo tempo, per fare ritorno al capezzale di God: il passato, come la psicoanalisi sa bene non passa, va riattraversato e rielaborato perché del futuro ci si possa riappropriare.

Lanthimos compone immagini oniriche, usando il grandangolo e una scenografia gotica senza però mai virare nel fantasy. Usa l’eredità di Mary Shelley e strizza l’occhio a “Mercoledì” – serie che lo scorso inverno ha spopolato tra i teen – non a caso un’autrice molto amata anche dagli studi anti specisti per sferrare un assalto ideologico al patriarcato, sbeffeggiato senza pietà, ridotto chirurgicamente ai minimi termini: dalla donna che visse due volte, alla donna che nacque due volte.


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