Espansione delle rinnovabili, strade di sviluppo sostenibile, riforma del sistema finanziario multilaterale. Concluso il primo Africa Climate Summit a guida kenyota, è il momento di assorbirne le conclusioni e implementarle sulla strada verso Cop28 e G7 a guida italiana. Intervista al co-ceo di Ecco, il think tank italiano sul clima
A Nairobi si è chiuso il primo Africa Climate Summit, una tre giorni di dialogo tra i Paesi africani (rappresentati da venti capi di Stato e di governo) focalizzata su definire e concretizzare i piani di transizione energetica del continente. Un processo delicato di mediazione tra sensibilità molto diverse, spesso discordanti, in un contesto che non favorisce il flusso di capitali necessario. A seguire i lavori dall’Italia c’era Luca Bergamaschi, cofondatore e co-Ceo di Ecco, il think tank italiano sul clima, raggiunto da Formiche.net per tirare le somme dei lavori.
Che impressione le ha lasciato il Summit?
Sicuramente è stato un successo organizzativo per la presidenza del Kenya, che si conferma un Paese trainante della conversazione e degli impegni sul clima. Il Presidente William Ruto ha provato a unire diversi approcci per una visione collettiva dell’Africa, cosa mai semplice: questo è il dato politico da segnalare. In generale, le soluzioni discusse delineano una visione non solo africana, ma globale, su come portare a compimento la transizione.
Ci può dare i punti salienti della Dichiarazione di Nairobi?
Parto dalle premesse: l’Africa individua il cambiamento climatico come la più grande sfida dell’umanità e riconosce che nonostante possieda grandi risorse (40% della capacità potenziale globale per le rinnovabili) il continente attrae solo il 2% degli investimenti. Dopodiché si traccia l’agenda verde, detta Climate Positive Growth, centrata su l’elettrificazione basata sulle rinnovabili e l’impegno concreto di installare 300 gigawatt entro il 2030. Questo equivale a circa 600 miliardi di dollari in investimenti – ossia dieci volte gli investimenti mobilitati ad oggi. Poi c’è il tema della creazione del tessuto industriale, evitare che i materiali siano solamente esportati creando l’infrastruttura per processarli e raffinarli localmente e mantenere in Africa il valore generato. Infine c’è un riferimento esplicito all’evitare azioni unilaterali di chiusura e distorsione dei mercati.
Un programma ambizioso.
Non ovunque – sono stati solo citati i temi dell’agricoltura sostenibile e della protezione della biodiversità, entrambi fondamentali per il continente. E manca proprio il riferimento all’adattamento al cambiamento climatico, verso cui l’Africa è molto esposta. Però devo evidenziare l’attenzione posta alle riforme del sistema finanziario multilaterale.
Quali le richieste dell’Africa?
Va capito come mobilitare la comunità internazionale, per esempio sui diritti speciali di prelievo, per attingere in modo agevolato alle riserve delle banche multilaterali e finanziare la transizione africana. Servono volumi di denari simili a quelli impiegati per rispondere alla pandemia, nell’ordine delle centinaia di miliardi all’anno. Questo discorso tocca anche il debito e la necessità di interventi di sollievo, per non lasciare i Paesi africani nella spirale negativa in cui cadono se rimangono a corto di capitali (con costi più alti a causa del cambiamento climatico). Perciò serve abbassare i costi dei prestiti in Africa, che come ha rimarcato Ruto sono dalle cinque alle otto volte più alti rispetto all’Occidente. Infine si invita a tassare il commercio degli idrocarburi, il trasporto marino e l’aviazione, per raccogliere capitale da dedicare alla transizione.
Quanto è realistica l’esortazione a creare una tassa globale sulle emissioni?
La considerazione africana è che i Paesi più sviluppati si prendono più capitali per la transizione. Tassare CO2 ed equivalenti è un’opzione, ma si riconosce che politicamente sia difficile da applicare, anche perché non esiste al momento un mercato globale e ci sono delle resistenze nazionali. Diciamo che la misura va messa in prospettiva assieme ad altre e più importanti riforme del sistema finanziario in grado di mobilitare volumi molto superiori. Ne stanno parlando tanto gli economisti, ma nella pratica politica serve allargare il discorso… e gli africani lo stanno facendo in maniera molto più articolata.
Tra i partecipanti al Summit c’erano il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e l’inviato speciale Usa per il clima John Kerry. Come hanno contribuito?
Al Summit abbiamo visto iniziative concrete, Paesi come Germania e Danimarca hanno dato supporto a collaborazioni per lo sviluppo di rinnovabili e idrogeno. L’Ue ha promesso che metà dei 300 miliardi di dollari mobilitati con il Global Gateway andranno all’Africa. Ma in termini di finanziamenti effettivi, come Ue ma anche come Usa, siamo sotto al miliardo. Questo contrasta con l’annuncio degli Emirati Arabi Uniti di investire 4,5 miliardi di dollari per le rinnovabili: una nazione basata sugli idrocarburi ha fatto molto di più delle potenze occidentali.
Con il Global Gateway e le sue declinazioni nazionali – come il Piano Mattei che il governo Meloni presenterà a ottobre – i Paesi europei mettono in campo la loro risposta alle richieste africane. Combaciano?
Nella teoria Global Gateway e Piano Mattei sono strumenti per creare quella cooperazione paritaria che sia la Commissione Ue, sia il governo Meloni hanno dichiarato di voler raggiungere, ma serve mettere questa teoria alla prova dei fatti e capire i dettagli. Il Summit Italia-Africa del 5-6 novembre sarà decisivo. E più in generale i prossimi quattro mesi informeranno la presidenza italiana del G7 nel 2024. Il periodo è importantissimo anche per le riflessioni su cosa l’Italia metterà sul piatto del G7 dopo il Summit e la Cop28.
Su quali parametri valuterà il Piano Mattei?
Sicuramente serve capire quanto lo sviluppo delle rinnovabili sia una componente centrale, vista l’attenzione che l’Italia dedica allo sviluppo continuo del gas. È previsto il supporto pubblico agli idrocarburi? Poi, che dimensioni avrà l’impegno finanziario? Quanto si appoggerà al Fondo italiano per il clima, a Sace? Riuscirà a garantire sviluppo industriale in Africa e consentire a Roma di mantenere relazioni commerciali aperte? Favorirà l’importazione di prodotti finiti e non materie prime? Uno dei rischi maggiori è ripetere i modelli storici di estrazione di risorse e valore che non porti all’industrializzazione dell’Africa.
Cosa ha offerto finora l’Italia?
Nella sua cooperazione internazionale con i Paesi africani Roma bilancia adattamento e mitigazione in maniera equivalente. Adattare il continente al cambiamento climatico e rendere i Paesi più resilienti ha effetti anche economici e politici – pensiamo alle emigrazioni e ai conflitti – con riflessi importanti sulla stabilità e sulla sicurezza dei Paesi mediterranei, tra cui l’Italia. Vuol dire anche mettere in sicurezza i sistemi alimentari e idrici e permettere una governance per lo sviluppo demoratico, in un continente in cui molti Paesi sono sorretti da regimi autoritari e mancano di istituzioni e società civili ben sviluppati. La chiave è supportare riforme di governance tarate sulla partecipazione, sull’inclusione, sui diritti e le libertà che rispecchiano i valori universali dell’Onu.
La Dichiarazione di Nairobi funge da base per i dibattiti della Cop28 di Dubai, che inizierà il 30 novembre. Che impulso ha dato?
Anzitutto una direzione su come implementare nel concreto l’impegno dell’accordo di Parigi. Quello africano è un esempio molto forte e può aiutare a sbloccare i risultati su priorità, volumi, investimenti necessari alla Cop, indirizzare i negoziati a livello di finanza e transizione energetica. Serve vedere quanto la presidenza emiratina saprà gestire la voce dei Paesi in via di sviluppo rispetto ai grandi player – G7, Cina e India. Lì si giocherà la partita su come gli attori coopereranno o si chiuderanno. Il summit G20 di questo fine settimana farà da termometro geopolitico. Abbiamo già l’indicazione dell’assenza di Xi Jinping, ma non per questo il G20 non perde spinta, anzi: chi ci perde è chi non siede al tavolo e Pechino rischia di non partecipare alle conversazioni tra 19 grandi Paesi che comunque rappresentano due terzi del Pil globale.