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Il ritorno della gabbia statale dietro la battuta d’arresto cinese

Altro che “prosperità comune”. La compressione del mercato e dei diritti di proprietà è all’origine della frenata economica del gigante asiatico. Che ora deve temere la concorrenza dell’India, dotata di istituzioni più inclusive. Il commento di Giuseppe De Tomaso

Prosperità comune o prosperità sfumata? Negli anni Ottanta, ai tempi di Deng Xiaoping (1904-1997), dopo il regno di Mao Zedong (1893-1976), fu l’allora vicepresidente del partito comunista cinese, l’economista Chen Yun (1905-1995), a elaborare la teoria della gabbia e dell’uccello. Chen sosteneva che bisogna allargare la gabbia perché l’uccello possa godere di maggiore libertà e salute, ma guai ad aprire la gabbia, altrimenti l’uccello vola via senza farsi più riacciuffare. Sottinteso: l’economia della Cina era l’uccello, il controllo esercitato dal partito era la gabbia.

E, in effetti, pur limitandosi, il Partito, ad allargare la gabbia, facendo attenzione a non aprirla, l’uccello (cioè l’economia cinese), grazie a minori restrizioni, aveva prodotto risultati che negli anni dell’intossicazione ideologica maoista sarebbero apparsi più illusori di un miraggio nel deserto. Ora, però, l’uccello cinese ha smesso di volare, si limita a saltellare in una gabbia sempre più piccola, così come l’ha ridotta l’attuale timoniere Xi Jinping, che ha intensificato il controllo partitocratico su imprese e attività varie.

Che la Cina avrebbe smesso di volare, lo si era capito quando il gruppo dirigente tuttora al potere lanciò, qualche anno addietro, l’obiettivo della “prosperità comune”. Sulla carta un obiettivo ineccepibile, più apprezzabile di un mega-lascito per i poveri. Nei fatti un obiettivo alquanto ambiguo: non solo in Cina non si apriva la gabbia, non solo la si comprimeva, ma la formula della prosperità comune era solo il paravento per nascondere il vero retropensiero del potere: rilanciare e rafforzare la presenza dello Stato, cioè del Partito, in economia.

Tutto qui. Dipende da questa inversione di rotta, nella politica economica, il rallentamento della crescita cinese, crescita che fino a pochi anni addietro, pareva più imponente e travolgente di un fiume sempre in piena. Altro che sorpasso nei confronti degli Stati Uniti. Se la Cina non riscopre le virtù del mercato, sperimentate da Deng attraverso il via libera a distretti produttivi liberi di muoversi senza l’occhiuta sorveglianza da parte del Pcc, sarà l’India a soffiarle il primato dello sviluppo in Asia e dintorni.

Che l’India abbia parecchie possibilità di effettuare il sorpasso ai danni del gigante cinese, lo si può dedurre da un’altra constatazione: la qualità delle sue istituzioni, decisamente migliori rispetto alle omologhe cinesi. Sì, perché l’India non sarà una democrazia perfetta di stampo europeo, ma di sicuro il suo sistema politico-costituzionale non è così estrattivo come quello di Pechino, anzi presenta (per dirla ancora con il linguaggio degli studiosi americani Daron Acemoglu e James A. Robinson autori del celebre saggio “Perché le nazioni falliscono”) interessanti elementi di inclusività, tipici di ogni ordinamento democratico.

È la qualità delle istituzioni politiche a determinare le prestazioni di un sistema economico. Non viceversa. Le società estrattive, a differenza di quelle inclusive, sono fondate sulla rendita, anziché sul reddito. E in Cina il primo beneficiario della rendita, oggi più di ieri, è tornato ad essere il Partito, sempre più proteso a centralizzare e burocratizzare ogni cosa, compresa la solidarietà. Il che, oltre a frustrare la voglia di intraprendere degli spiriti più dinamici (indicativo è il caso di Jack Ma, il creatore di Alibaba, costretto a riporre progetti e ambizioni imprenditoriali dai vertici del Partito gelosi per il suo strepitoso successo sui mercati di mezzo mondo) di fatto si traduce in un gesto che si può riassumere così: si toglie la scala a chi viene dopo e ha tanta voglia di salire. Via via s’irrobustisce, come sta avvenendo, la dittatura dei burocrati, si moltiplicano le satrapie pubbliche, proliferano gli oligarchi privati ossequiosi e disciplinati verso i detentori del comando. A dimostrazione che se e quando la politica non riforma sé stessa, semmai predilige contro-riformare sé stessa, anche l’economia subisce la medesima involuzione. La povertà e/o la ricchezza di ogni nazione dipendono da come le istituzioni politiche, giuridiche ed economiche interagiscono tra loro. Ad esempio: più uno Stato osteggia i diritti umani, più ostacola la creazione della ricchezza. L’esempio delle due Coree lo dimostra meglio di mille trattati. Una, la Corea del Nord, arretrata perché estrattiva ad esclusivo beneficio del suo Grande Fratello. L’altra, la Corea del Sud, iper-dinamica perché provvista di istituzioni meno escludenti.

Fino a quando il regime cinese ha provveduto a riconoscere i diritti di proprietà, aggirando l’ortodossia della sua originaria impronta marxista, il Pil della superpotenza asiatica ha potuto collezionare un record dopo l’altro. Ma quando il Partito, mettendo in forse i diritti di proprietà essenziali per far funzionare un’economia di mercato, ha voluto riappropriarsi del proprio tradizionale ruolo di agente tuttofare, ruolo parzialmente mollato durante la stagione denghista, sono cominciati i problemi, prima lievi poi pesanti. Tanto che oggi il “miracolo cinese” è una dizione associata al recente passato, non già al delicato presente o tanto meno all’incerto futuro.

L’assolutismo, ovverossia il privilegio (attribuitosi dai governi) di ignorare le leggi, è il principale nemico della crescita, economica e civile. Anche l’assolutismo meno ottuso è avaro di benefìci. Non a caso, e non a torto, alcuni storici fanno risalire l’origine del declino dell’antica Roma alla decisione di Augusto (63 avanti Cristo – 14 dopo Cristo) di archiviare la repubblica per instaurare l’impero (cioè un modello meno inclusivo). Non a caso Venezia perse nel Trecento la leadership finanziaria e commerciale in Europa: i suoi reggitori introdussero, per gli scambi, vincoli degni di uno stato sovietico.

Del resto cos’è un sistema politico estrattivo, se non un sistema fondato sui monopòli e sulla compressione della libertà di operare e cooperare? Non ci sono monopòli buoni e monopòli cattivi. Non fa eccezione nessuno, ne sta prendendo atto a proprie spese la società cinese, il cui governo è il monopolista più invasivo del pianeta.

Conclusione. L’ascesa-discesa della Cina dovrebbe rappresentare per tutti, in primis per europei e italiani in particolare, una lezione da tenere sempre a mente. Solo la libertà economica è sinonimo di crescita. Tutto il resto sfocia nel suo esatto contrario.

 

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