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Perché è fondamentale salvare il Servizio sanitario nazionale

Di Antonino Saitta

Il ministro della Salute ha richiesto un incremento del fondo sanitario di 4 miliardi, il non accoglimento di questa proposta equivarrebbe ad affermare che il Ssn, finanziato con la fiscalità generale, non è più sostenibile. L’opinione di Antonino Saitta, ex assessore alla sanità della Regione Piemonte

Una delle questioni fondamentali che dovrà essere affrontata nella manovra del bilancio è il finanziamento del Ssn. Il ministro della Salute ha richiesto un incremento del fondo sanitario di 4 miliardi perché un importo minore rischia di ledere ulteriormente i principi fondanti del Ssn che impongono di garantire a tutti i cittadini, indipendentemente dal reddito, cure sanitarie adeguate.

Il problema è certo di difficile soluzione perché, mentre le risorse realmente disponibili nella manovra sono limitate, le proposte che il governo ha annunciato di finanziare sono numerose.

Il non accoglimento della proposta del ministro equivarrebbe ad affermare che il Ssn, finanziato con la fiscalità generale, non è più sostenibile e quindi, di fatto, si legittimerebbe lo scivolamento, in parte già avviato, delle cure sanitarie pubbliche verso la sanità privata (attraverso le assicurazioni) accrescendo così le diseguaglianze. Un processo che sarebbe accelerato con l’introduzione della flat tax, proposta contenuta nella delega fiscale già approvata dal Parlamento.

La sostenibilità del Ssn richiederà più risorse anche nei prossimi anni per adeguare la spesa sanitaria alla media europea che è il 7,1% del Pil: in Italia è del 6,8%, in Germania il 10,9%. Poiché nei prossimi anni le difficoltà della finanza pubblica persisteranno, è necessario mettere subito in campo anche politiche di contenimento della spesa sanitaria (che evidentemente non devono riguardare il personale e i servizi) al fine di liberare risorse da reimpiegare nel Ssn. Ad esempio della riduzione del costo dei farmaci si parla da anni e sempre in prossimità della finanziaria, ma il giorno dopo l’approvazione l’argomento cade nel dimenticatoio.

La spesa farmaceutica nazionale totale (pubblica e privata) continua a crescere: nel 2022 è stata di 34,1 miliardi di euro, in aumento del 6,0% rispetto al 2021. È quanto emerge dal recente rapporto dell’Agenzia Italiana del farmaco (Aifa), che rileva anche una bassa incidenza della spesa per i farmaci equivalenti rispetto agli altri Paesi europei: l’Italia è terzultima in Europa con un’incidenza del 43,4%. In testa alla lista ci sono Polonia, Portogallo, Gran Bretagna, Francia, Svezia, Germania e Spagna.

È noto che esistono due tipi di farmaci: i tradizionali, prodotti per mezzo di processi di sintesi chimico-industriale e i biotecnologici, che vengono sintetizzati a partire da organismi viventi, mediante tecniche d’ingegneria genetica. Tutti i farmaci hanno un brevetto, ossia il marchio di esclusiva dell’azienda che dura 25 anni. Sviluppare un nuovo farmaco è un percorso lungo e costoso per gli investimenti nella ricerca: dal rilascio del brevetto alla commercializzazione occorrono mediamente 10-12 anni perché occorrono apposite analisi cliniche. Alla scadenza del brevetto altre aziende potranno produrre lo stesso farmaco come equivalente al farmaco tradizionale o biosimilare nel caso di farmaco biotecnologico a un prezzo più basso perché i produttori non ne dovranno più sostenere i costi di ricerca.

Ciò premesso, è evidente che un maggiore utilizzo di farmaci equivalenti e biosimilari riduce la spesa farmaceutica. Inoltre se le aziende farmaceutiche che producono farmaci equivalenti e biosimilari vengono messe in concorrenza tra di loro (sempre mettendo al centro le evidenze scientifiche a tutela del paziente) attraverso gare di appalto organizzate da regioni singole o associate, si ottengono considerevoli risparmi. È ciò che ha chiesto recentemente l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (Agcm) al governo sul disegno di legge della concorrenza. Identica sollecitazione al governo è stata fatta dall’Aifa sostenendo che “l’introduzione di farmaci a brevetto scaduto rappresenta un’importante occasione di efficientamento economico della spesa sanitaria senza compromettere le garanzie di efficacia e sicurezza che rimangono il cardine dell’assistenza farmaceutica”.

Di quanto si ridurrebbe in questo modo la spesa farmaceutica? È difficile quantificarlo, si può riportare qualche informazione utile a dimostrare che i risparmi sarebbero notevoli. In Piemonte nel 2018 sono stati risparmiati, grazie alle gare, 41 milioni di euro con una riduzione media del prezzo dei farmaci del 67%: in alcuni casi sono state ottenute riduzioni del prezzo fino al 99%, come nel caso del Bosental e dell’Imatinib il cui costo unitario è sceso rispettivamente da 2.210 a 27 euro e da 1.907 a 24 euro. Per avere un’idea più complessiva è sufficiente l’esame del “Monitoraggio dei farmaci non biologici a brevetto scaduto”, pubblicato recentemente da Aifa. Emerge che sono numerosi i farmaci a brevetto scaduto negli ultimi 3-4 anni, dove gli equivalenti hanno un’incidenza di consumo inferiore al 50%; gran parte ha addirittura un’incidenza intorno al 15/20% mentre il restante consumo continua a essere coperto dai costosi farmaci originator. Vedremo se le indicazioni dell’Agcm e dell’Aifa per garantire la promozione della concorrenza nel settore farmaceutico saranno accolte.

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