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Vi spiego l’impatto distorsivo dei media sudamericani sulle democrazie. L’analisi del professor Zaffaroni

Dai viaggi in Messico alla dittatura militare argentina, dalle trasformazioni politiche del Sud America al ruolo di giudice della Corte Suprema. E ancora, le sfide di oggi rilette attraverso la grande esperienza di giurista, l’impatto distorsivo dei media sudamericani sulle democrazie e il pensiero di papa Francesco. conversazione con Eugenio Raúl Zaffaroni

Eugenio Raúl Zaffaroni è il più autorevole rappresentante delle scienze penalistiche del Latino America e tra i penalisti più noti a livello mondiale, professore emerito di diritto penale all’Università di Buenos Aires, giudice della Corte Suprema di Giustizia dell’Argentina dal 2003 al 2014 e dal 2016 al 2022 giudice della Corte Interamericana dei Diritti umani.  Nell’ambito della visita presso l’Università degli Studi di Roma UnitelmaSapienza, incontro organizzato dal professore ordinario di Diritto Penale Vincenzo Mongillo, abbiamo avuto il piacere di raccogliere, in questa intervista con Formiche.net, le sfide del presente e il “ruolo del giurista oggi”.

Professore Zaffaroni, nella sua formidabile traiettoria umana e professionale, ha assunto tutti i ruoli che un giurista potrebbe ricoprire: accademico, giudice ordinario, giudice costituzionale, giudice presso la Corte interamericana dei diritti umani, legislatore e politico del diritto. Intravede un filo conduttore che tiene unite tutte queste esperienze umane e professionali?

Penso di sì, un filo conduttore è lottare per una democrazia plurale ma egualitaria. Cercare di lottare contro tutto, contro quei preconcetti discriminanti che sopravvivono ancora nelle nostre società e nella nostra America Latina.

La sua irripetibile esperienza è stata segnata anche da momenti drammatici e in particolare dall’avvento della dittatura militare che si instaurò in Argentina nel 1976, anno in cui lei venne declassato dal regime, passando da giudice federale a giudice ordinario della città di Buenos Aires. Cosa ha significato per un magistrato lavorare sotto un regime che non si è certo risparmiato condotte aberranti, come rivela anche la tragedia dei desaparecidos? Come ha superato il senso di impotenza che quasi naturalmente può affiorare in contingenze così terribili?

È difficile anche solo immaginare quanto possa essere stata terribile questa nostra esperienza; anche l’Europa ha vissuto momenti drammatici legati alla Shoah degli ebrei, noi abbiamo avuto i regimi militari. Oggi celebriamo quarant’anni di governi costituzionali, diciamo normali, ma io sono nato e cresciuto ai tempi del governo peronista, dei colpi di Stato e delle dittature militari in successione. Siamo stati, nostro malgrado, abituati a queste interruzioni della democrazia e ai governi incostituzionali. Negli anni Sessanta, in Argentina, non avevamo compreso sin da subito la vera dimensione di questi regimi dittatoriali, ma già negli anni Settanta questo era divenuto chiaro, soprattutto viaggiando in Europa ne ho percepito la gravità e preso coscienza. All’epoca l’informazione locale era molto limitata, sapevamo in qualche modo ciò che accadeva, ma in Argentina non si percepivano le reali dimensioni. Erano anni difficili, facevo allora il giudice ordinario (il regime mi aveva “declassato”) e nel diritto argentino avevamo l’habeas corpus, così ho avuto la possibilità di dichiarare una volta l’incostituzionalità dell’opzione di uscita dal Paese dei detenuti a disposizione dell’esecutivo. Ho investigato, ad esempio, sul caso di una ragazza rapita in un autobus dal personale della Marina; dopo aver raccolto tutte le testimonianze, non ho avuto mai risposta dalle autorità: “Non possiamo dare informazioni per questioni di sicurezza”, questa era la loro giustificazione. Interpello allora il dittatore Jorge Rafael Videla, generale e presidente argentino tra il 1976 e il 1981, e mi chiamano  dalla sede del governo per dirmi: “Che cosa vuole dottore? Noi non le daremo alcuna informazione”. Questa è una delle prove portate nel grande processo che ci fu dopo sulla tragedia dei desaparecidos. Cosa facevo a quel tempo e come mi sentivo? Una volta ho domandato al grande giurista italiano Giuseppe Bettiol: “Maestro lei cosa faceva durante il fascismo? Studiare, non si poteva fare altra cosa”. E io ho scritto i cinque volumi del Trattato di diritto penale.

E cosa ha provato invece quando circa 30 anni dopo la chiamò il presidente Kirchner nel 2003 per ricoprire il ruolo di giudice della Corte Suprema dell’Argentina?

Rimasi sorpreso, perché non avevo mai lavorato ad un profilo personale, per così dire “ordinario”, per divenire giudice della Corte Suprema. Non conoscevo bene Kirchner. Era stato governatore di una provincia della Patagonia, cosa è venuto a fare questo “pinguino” mi chiedevo. Dissi: “Tu mi conosci? Guardi che io non farò niente per l’impunità di questi assassini, di questi genocidi” e lui rispose “noi nemmeno, non ti preoccupare”. Sollevai anche il problema dei dollari che erano nelle banche e che avrebbero dovuto essere restituiti, e lui: “Sì sì, anche noi lo pensiamo, ma ne parliamo dopo!”. Feci queste domande perché non sapevo veramente quale fosse l’obiettivo dei Kirchner, anche di Cristina, di certo una coppia molto originale per l’Argentina e la nostra politica. In quel momento non era possibile decifrare le loro intenzioni.

Quali sono secondo lei le sfide maggiori del presente, in particolare per l’Occidente in cui viviamo, e che contributo possono dare i giuristi e gli intellettuali in genere?

Io credo che ci troviamo alla fine di un’epoca e all’inizio di una nuova. Se prima questa non finisce non può iniziare l’altra. Allora in questo momento penso che, sia nel pensiero giuridico sia in quello filosofico occidentale, c’è un vuoto. Forse dobbiamo ricominciare a pensare a soluzioni che la nostra modernità e post-modernità non hanno il coraggio di vedere. Forse dobbiamo pensare anche a cose che gli europei e gli americani con il loro colonialismo hanno considerato primitive, ma non sono così primitive. Forse si devono riprendere concetti del Sud del mondo, specialmente perché ci troviamo in un momento che non è plasmato dalle regole del “vecchio imperialismo”.

Il Novecento è al tramonto. Ci vuole un altro paradigma professore?

Sì è finito. Abbiamo bisogno di questo nuovo paradigma perché altrimenti l’umanità è finita. C’è ad esempio un limite, che è quello di abitabilità del pianeta che è nuovo e con il quale dobbiamo confrontarci. Una scelta tra le vita e la morte della vita umana sul pianeta, per renderla più sostenibile possibile.

Lei si è molto soffermato anche sulla questione mediatica e sull’impatto distorsivo che la concentrazione proprietaria dei mass media può avere sulla qualità delle democrazie? Anche papa Francesco ne ha parlato più volte. Perché questo tema è così cruciale secondo lei?

Penso che per l’America Latina sia uno dei maggiori nemici della nostra democrazia. Noi non abbiamo democrazie forti, i nostri stati di diritto sono abbastanza deboli ed esiste un monopolio dei mezzi di comunicazione in tutta la nostra America, Televisa nel Messico, Rete Globo nel Brasile, il Clarìn in Argentina, El Mercurio nel Cile, Caracol nella Colombia. La narrazione di una realtà unica è compatibile con lo stalinismo, con il fascismo, con il nazismo, ma non è compatibile con la democrazia plurale, non esiste la democrazia del “partito unico”. Oggi questi mezzi di informazione si mettono d’accordo con i rappresentanti politici locali e diventano partiti politici, nel senso della funzione sociologica del partito politico. Fanno campagne elettorali per rappresentare gli interessi finanziari internazionali, mettendosi d’accordo con alcuni pezzi del settore giudiziario, scatenando vere e proprie persecuzioni politiche. Si inventano vicende di corruzione perseguendo i politici e i leader popolari. Questo è successo ad esempio a Rafel Correa, ex Capo di Stato dell’Ecuador, è successo in Brasile con Lula, è successo in Argentina con Cristina Kirchner, è successo in Bolivia con Evo Morales, è successo in Perù con José Pedro Castillo. Un vero e proprio lawfare (ne ha parlato anche papa Francesco nel suo storico discorso su questioni penalistiche del 15 novembre 2019, n.d.i.), cioè la persecuzione politica e giudiziaria attraverso i mezzi di comunicazione e alcuni ambiti del settore giudiziario.

Poco fa ho evocato papa Francesco, a cui so che lei è molto legato culturalmente, e non solo per ragioni di provenienza nazionale. Secondo lei quali sono i pilastri del magistero del Santo Padre da cui dovremmo ripartire in un’epoca così complessa come quella in cui viviamo?

Penso che qualcosa non va bene: se voi pensate che la voce più progressista dell’Europa è il papa, forse c’è qualcosa che non va bene.

(Foto: CorteIDH/Flickr)

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