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Non allineati. Come noi

Alle ultime Regionali di marzo solo un elettore su tre ha confermato il suo voto al partito che aveva scelto alle europee dello scorso anno. E complessivamente meno della metà (il 47%) ha scelto di votare – quindi ha scelto un partito politico, i suoi uomini, la sua piattaforma programmatica – in entrambe le occasioni: un risultato abbastanza modesto per la “Politica Spa”. Se infatti l’intero comparto politico fosse una qualsiasi multinazionale, con un tale tasso di fedeltà della clientela, la poltrona del direttore marketing sarebbe ad alto rischio. Parlare genericamente di fedeltà, però, non ci aiuta alla comprensione di questo fenomeno. Ricorriamo per questo all’inglese, che distingue tra il concetto di “retention” e quello di “loyalty”.
Se infatti il primo indica un generico “riacquisto”, non segnalando nulla sulle motivazioni del comportamento, e che potrebbe essere dunque indotto dalle circostanze, il secondo rimanda invece in maniera netta alla volontarietà dell’atto, che corrisponde a una libera scelta del cliente/elettore, della quale egli è soddisfatto e che quindi ripeterebbe. In senso lato si potrebbe parlare di “lealtà”: una “fedeltà”, cioè, non vincolata, che presuppone un alto livello di soddisfazione. Accertato che soddisfazione e fedeltà non sempre coesistono, le imprese possono distinguere i propri clienti in differenti classi, che decliniamo in questo caso con i partiti, gli elettori e i comportamenti di voto.
Gli “apostoli” (alta soddisfazione e alta fedeltà): sono coloro che sono completamente soddisfatti dell’operato del partito e dei suoi leader, e sono inoltre molto fedeli verso il partito. Gli “ostaggi” (bassa soddisfazione e alta fedeltà): sono gli elettori anche fortemente insoddisfatti ma che trovano scarse alternative e sono sensibili agli aspetti emozionali e alle ideologie. I “mercenari” (alta soddisfazione e bassa fedeltà): elettori soddisfatti ma strutturalmente infedeli, razionali e sensibili alle proposte programmatiche, tipicamente attratti da offerte politiche anche diverse da quelle del proprio partito/della propria area politica di riferimento. Infine, i “terroristi” (bassa soddisfazione e bassa fedeltà): elettori profondamente insoddisfatti, che avendo alternative di scelta abbandonano il partito che hanno preferito in passato, e soprattutto comunicano ad altri la propria cattiva esperienza. Negli ultimi anni, sicuramente dall’inizio della Seconda repubblica, si è pressoché svuotato il gruppo degli “apostoli”, da cui sono partiti flussi imponenti di elettori verso la condizione di “ostaggi”, di “mercenari” e di “terroristi”. Andiamo a vedere perché.
 
Contro dipendenza
Questo esodo nasconde una questione generazionale. Secondo l’Osservatorio politico nazionale di Lorien Consulting coloro che alle ultime elezioni Europee e Regionali si sono recati alle urne e hanno scelto lo stesso partito (“i fedeli”) sono in netta prevalenza cittadini oltre i 55 anni, pensionati, a bassa scolarità. Il “non allineato”, invece, ha un identikit giovane, o meglio giovane-adulto: la contro dipendenza, la nettezza delle opinioni continua ad avere un ruolo importante nella fascia 18-24 anni; questi elementi sembrano però quasi completamente svanire per i 25-34enni e soprattutto per i 35-44enni. Mentre i primi ricordano la Guerra fredda per averla studiata sui libri di storia, e quindi non conoscono un mondo che non sia unipolare, i secondi hanno assistito nel pieno della giovinezza al crollo del Muro di Berlino, e dunque di tutte le vecchie ideologie. Costruttori più o meno consapevoli di un mondo globalizzato, hanno appreso che anche la scelta della marca di un caffè al supermercato è una scelta politica, e non hanno remore a fare scelte estreme come quelle del boicottaggio di brand che rispondano in maniera errata ai loro standard etici e qualitativi. Non sorprende allora che anche nel supermercato della politica siano molto più pragmatici e razionali dei loro padri e dei loro nonni. Con partiti che cambiano il pelo (anche se non il vizio) più rapidamente delle stesse marche di caffè, è andato scemando quell’imperativo di recarsi alle urne comunque, anche per annullare la scheda o lasciarla bianca; queste generazioni, dunque, non trovando alcuna soluzione politica che li renda minimamente soddisfatti, considerano, tra le altre, una valida opzione anche quella di disertare le votazioni. Oltre alla fisiologica astensione passiva (elettori poco interessati alla cosa pubblica, in prevalenza in età avanzata, a bassa scolarità, residenti in centri medio-piccoli, operai, casalinghe e pensionati) ha preso così piede un’astensione che potremmo definire “consapevole”, fatta di elettori pur attenti alle vicende politiche, ma ormai sfiduciati e disillusi. Gli “astensionisti consapevoli” sono infatti giovani, in fascia attiva, ad alta scolarità, residenti nei grandi centri, lavoratori autonomi o liberi professionisti e impiegati del settore privato. Oltre a disoccupati e precari scontenti.
 
Astensionismo
Le Europee dello scorso anno avevano già fatto scattare un campanello d’allarme, ma evidentemente è rimasto inatteso, visto il crollo dell’affluenza alle Regionali di quest’anno, e il trend in costante discesa di tutte le amministrative che si sono succedute negli ultimi mesi. I numeri sono impietosi, soprattutto in un’ottica di medio-lungo periodo: se guardiamo infatti a elezioni che hanno interessato contemporaneamente la maggior parte della popolazione italiana (quindi politiche, europee, amministrative), con le Regionali del 28 e del 29 marzo è stato toccato il punto più basso della Seconda repubblica, con una partecipazione al voto di meno di due italiani (maggiorenni) su tre, il 64,2% degli aventi diritto, quasi il 20% in meno rispetto alle Regionali del 1995 (affluenza all’81,3%). Al di là del dato generale, è particolarmente significativo il livellamento verso il basso tra le affluenze regionali: se infatti fino a un recente passato il nord registrava una partecipazione significativamente maggiore rispetto al Mezzogiorno, la “curiosa sensazione/che rassomiglia un po’ a un esame/di cui non senti la paura/ma una dolcissima emozione” a cui si riferiva Giorgio Gaber (Le Elezioni, 1976) sembra essere svanita anche al di sopra del Po. I 20 punti percentuali che separavano le affluenze di Emilia Romagna e Calabria (le regioni dove si vota rispettivamente di più e di meno) nel 1995, sono diventati meno di 10 nel 2010. Ma se la Calabria ha perso “solo” il 9,4% di votanti, l’Emilia Romagna ha lasciato sul campo oltre il 20%.
 
Una Italia o (ancora) tre Italie?
È evidente che la direzione intrapresa dal nostro Paese sia verso una “normalizzazione” del sistema di rappresentanza, costruito negli ultimi sessanta anni su dinamiche diverse secondo le diverse aree geografiche. Per motivi e origini differenti, il nord e il centro (ad esclusione del Lazio, un caso a parte) sono stati caratterizzati negli anni, da servizi ai cittadini che spaziavano tra l’efficienza e l’eccellenza. Ma mentre in Lombardia, Veneto e Piemonte erano l’imprenditorialità e l’iniziativa privata la fonte di ricchezza diffusa e di servizi adeguati, in Emilia Romagna, Toscana, Umbria erano invece le amministrazioni (e quindi la politica) a garantire standard elevati e sviluppo economico. Ad ogni modo, per motivi che esulano da questo articolo, in entrambe le aree ad un certo punto si è sviluppata un’insofferenza verso la politica “politicante” (intesa cioè come mediazione realizzata dagli specialisti e dalle organizzazioni), che ha portato nel nord libero (ma non troppo) dalle ideologie al successo della Lega e all’incremento dell’astensione, e nel centro, feudo rosso per definizione, alla crisi di un sistema di potere sessantennale che sta avendo le medesime conseguenze delle vicine regioni settentrionali. Il sud, invece, merita un discorso a parte. Se di “normalizzazione” si può parlare, si tratta senza dubbio di una normalizzazione al ribasso. Nel meridione, segnato da problemi atavici, resta forte la logica clientelare, sebbene le ultime tornate elettorali abbiano dimostrato, con la seconda affermazione di Nichi Vendola, che la possibilità di sparigliare le carte e accendere una speranza nei cittadini è ancora possibile.
 
Il valore dei clienti. E degli elettori
In una società dalle identità liquide, il “non allineamento” – anticamera dell’astensionismo – potrebbe essere dunque un fattore fisiologico, inevitabile quasi. Ma in realtà, come abbiamo appena evidenziato, nel nostro Paese vuol dire qualcosa in più. E non solo per le cause, ma soprattutto per le sue conseguenze: se infatti si ritiene l’astensionismo il frutto di una scelta razionale da parte degli elettori, il rischio che si corre è che l’offerta politica sia strutturata sempre più su misura di coloro che votano, e che si allontani, pertanto, progressivamente dalle aspettative di chi non vota, consolidando, con un effetto di feedback, la propria scelta di astenersi. Questo fenomeno merita allora di essere analizzato dai decisori politici con grande attenzione. Ed è ancora una volta il marketing delle imprese a spiegarci il perché: conservare un cliente fedele (in questo caso un elettore di un qualunque partito, un cliente, cioè, della “Politica Spa”) costa dalle quattro alle sette volte meno rispetto a quanto costa acquisirne uno nuovo (in altre parole: un elettore che ha deciso di non votare più), a causa degli elevati costi di accreditamento che comporta il “processo di fidelizzazione”. Senza contare le esternalità positive (ad esempio, buona immagine e passaparola) che esso genera. Se però nel mercato dei capitali la conseguenza peggiore per un’azienda senza clienti può essere il suo fallimento, nei processi democratici le implicazioni sono ben più gravi, e coinvolgono il funzionamento stesso di tutta la nostra società.

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