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Non cali il sipario

Nel 150enario dell’unità d’Italia, il Fondo unico per lo spettacolo (Fus) è stato salvato con un’operazione che ha destato un animato dibattito (il ricorso ad un aumento della accise sulla benzina per finanziare i teatri) ancora in corso. Il Paese che è stato la culla della “musa bizzarra e altera” – così il musicologo Herbert Lindenberger chiamò la lirica – rischiava di esserne la bara, mentre in altre parti del mondo (Europa centrale, Asia e pure negli Usa dove nel 2010, in piena crisi economica, ci sono state ben 12 importanti “prime mondiali”) l’opera fiorisce e miete successi. Il pericolo non è scampato proprio per la forma anomala di supporto a cui si è ricorso. Una forma, per di più regressiva, in quanto pone il sostegno dei teatri (di cui spesso fruiscono solo i ceti più abbienti) a carico di chi utilizza l’automobile per esigenze essenziali.
 
Non tutto il settore è in pari pericolo. Alcune fondazioni liriche hanno un livello di programmazione così basso che i relativi enti potrebbero essere retrocessi a “teatri di tradizione” (sovvenzionati non con un contributo globale ma in base al numero di rappresentazioni che mettono in scena). Altri – ad esempio La Scala – hanno soci privati a cui fare ricorso. La minaccia è particolarmente grave per il Teatro dell’Opera della capitale che, dagli anni ´20 agli anni ´70 gareggiava con La Scala, con il Metropolitan e con il Covent Garden per numero di titoli presentati ogni anno (almeno 20), “prime esecuzioni” mondiali e qualità di spettacoli. Dopo lustri incerti, è ora in fase di rilancio. Alcuni dati sono eloquenti: per l’opera inaugurale – Moïse et Pharaon di Rossini – l’indice d’occupazione della sala è stato del 96%; le recite di Nabucco e di
Il lago dei cigni e le ultime due repliche della Soirée roland petit all’insegna del “tutto esaurito”: dall’inizio della stagione in corso l’indice medio di occupazione della sala è attorno all’85%; quest’anno gli abbonamenti normali hanno registrato un aumento del 30% rispetto alla media delle stagioni 2008-2010, quelli “speciali” (giovani, ecc.) del 300%; è in atto un’aggressiva campagna di marketing che ha interessato anche la stampa internazionale.
Questa rubrica ha più volte guardato l’Opera di Roma con occhi severi ed auspicato una maggiore efficienza, un miglior radicamento nella città e una più ampia partecipazione di soci privati. Tuttavia, proprio in quanto ci sono concreti segni di miglioramento, staccare adesso la spina potrebbe volere dire far calare forse per sempre il sipario proprio nell’anno in cui – anche per le celebrazioni dell’unità d’Italia – maggiore è l’attenzione sul teatro della capitale.
 
È essenziale traghettare la fondazione verso obiettivi di maggiore produzione (questa stagione si prevedono 180 recite rispetto alle circa 300 della Scala e del Covent Garden e alle 360 dei teatri dell’opera di Vienna e Parigi) tali anche da attirare soci privati.
Come farlo? In primo luogo, non dovrebbe essere difficile trovare i fondi necessari nelle 324 “contabilità speciali” del ministero dei Beni culturali; nate in base a una leggina del 1999, sono un contenitore dove al 31 dicembre 2010 giacevano 545 milioni di euro per impegni “propri” e “impropri” (secondo recenti studi della presidenza del Consiglio, della ragioneria generale dello Stato, e delle Università Bocconi e La Sapienza); le nuove regole sulla contabilità dello Stato (legge 196/2009) prevedono il definanziamento delle somme non utilizzate. Meglio impiegarne parte per evitare la chiusura di teatri importanti, prima che vengano cancellate.
In secondo luogo, portare al più presto il credito d’imposta delle elargizioni per la cultura dall’attuale 19% (tale da ipotizzare implicitamente che vengano fatte dalle fasce più basse di reddito) a quanto previsto dalle direttive europee (30% per le imprese e 40% per gli individui). Queste due misure, utili per tutti i teatri, sarebbero di particolare aiuto per quelli in fase di miglioramento e crescita, come l’Opera di Roma.


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