A Monza è andato a votare solo il 22% degli aventi diritto al voto. Una questione che riguarda il sistema elettorale, che ha dato ampia prova della sua incapacità di promuovere la partecipazione del corpo elettorale. Ecco perché secondo Pino Pisicchio
Il già senatore Adriano Galliani torna a sedersi in Parlamento nello stesso scranno che ospitò Silvio Berlusconi. Auguri di familiari e supporter, commenti entusiasti di pubblico (tifosi del Monza) e critica (i sodali della coalizione), parole commosse dell’eletto eccetera. Persino una contrizione del competitor Cappato che “si assume la responsabilità della sconfitta” (perché quando si perde è colpa, in genere, solo del destino cinico e baro?). Tutto ok, allora? Mica tanto.
Formalmente niente da ridire: procedura elettorale regolare e risultato che garantisce il sostituto per il seggio mancante mantenendo in equilibrio i numeri del Senato. Dal punto di vista politico, però, si tratta di un risultato che inquieta: è andato a votare solo il 22% degli aventi diritto al voto. Il che significa che l’89% dei monzesi non si riconosce nell’eletto che rappresenterà il territorio a Palazzo Madama.
Diciamolo subito: non ce l’abbiamo con Il presidente del Monza, sarebbe stata la stessa cosa se fosse stato eletto Cappato o chiunque altro. La questione riguarda il sistema elettorale, che ha dato ampia prova della sua incapacità di promuovere la partecipazione del corpo elettorale.
Nella passata legislatura, infatti, si svolsero 10 elezioni suppletive per la vacatio dovuta a decessi o dimissioni e la partecipazione non fu molto diversa: secondo l’elaborazione fatta da Openpolis, l’affluenza al voto si attestò in media intorno al 34% degli aventi diritto, con una prevalenza del 20% e un picco negativo del 9,5% registrato nel 2020 in Campania. Né in passato, vigente per esempio la legge elettorale prevalentemente maggioritaria (Mattarellum), nelle suppletive si è andati oltre il 20-30% dell’affluenza; d’altronde si registrano flessioni importanti anche nei turni di ballottaggio per i sindaci, che riportano al voto solo la metà dei votanti al primo turno, ad andar bene.
Non c’è forza politica o commentatore, peraltro, che non osservi con preoccupazione l’abbandono delle urne, rilevando – giustamente – in questo un indice di debilitazione della democrazia e della rappresentanza, che rappresenta sempre meno. La domanda, allora è molto semplice: perché non mettere mano alle leggi elettorali che, inseguendo modellistiche estranee alla nostra cultura politica, sono andate all’incontrario rispetto alla storica partecipazione plebiscitaria che si registrava al tempo del proporzionale con voto di preferenza?
La gente sceglieva chi votare – adesso non usa più: ci pensa il compilatore della lista bloccata espropriando l’elettore di un suo diritto costituzionale – e, quando per qualche ragione si rendeva vacante un seggio scattava il primo dei non eletti, scelto dal popolo. Si obietterà che il collegio uninominale implica per la natura dell’intuitus personae il ricorso alle suppletive. Risponderemmo: di quale intuitus personae stiamo parlando, se il voto per il collegio uninominale corrisponde esattamente alla sommatoria dei voti andati alla coalizione nella parte proporzionale e non è consentito il voto disgiunto tra liste alleate e candidato nell’uninominale?
Ritorna, allora, la domanda: perché non si riforma la legge restituendo lo scettro agli elettori attraverso il voto di preferenza? La risposta? Le leggi elettorali le fa il Parlamento che da trent’anni viene formato attraverso la cooptazione dei capi e non la scelta del popolo: si è mai visto qualcuno segare il ramo su cui si è accomodato, precipitando nel vuoto? Diremmo proprio di no.