Due anni fa ha lasciato l’agenzia. Qualcuno lo vedeva come successore di Netanyahu alla guida del Likud. Sulla riforma della giustizia ha cercato di non dispiacere a nessuno. Oggi è al fianco delle famiglie degli ostaggi nelle mani di Hamas mettendo al servizio loro e di Israele i suoi contatti. Domani in politica? Chissà
Sono passati poco più di due anni da quando Yossi Cohen ha lasciato la guida del Mossad a David Barnea, allora suo vice. Di lui, diventato consulente di SoftBank dopo aver diretto l’agenzia d’intelligence israeliana focalizzata sulle operazioni all’estero, e del suo futuro si è detto molto. Perfino che sarebbe stato il candidato più forte alla guida del Likud dopo Benjamin Netanyahu, al quale è molto legato da tempo. Ma il suo articolo di luglio su Yedioth Ahronoth in cui auspicava uno stop della riforma della giustizia promossa dal primo ministro e dalla sua maggioranza di destra (l’ha definita “giusta e giustificata” ma fatta in un modo che “mette in pericolo la resistenza della sicurezza nazionale dello Stato di Israele nell’immediato”) potrebbe aver cambiato le carte in tavola. Ma non le sue ambizioni politiche. Anzi, quell’intervento è sembrato a molti un esercizio di equilibrismo di Cohen.
Nei giorni scorsi l’ex capo del Mossad ha accompagnato le famiglie degli ostaggi nelle mani di Hamas e dei dispersi negli incontri con il presidente israeliano Isaac Herzog, con il presidente statunitense Joe Biden, con il primo ministro Netanyahu e con Benny Gantz, uno dei leader dell’opposizione che è stato convolto nel gabinetto di guerra istituto dopo il 7 ottobre. Al termine dell’incontro con Herzog, Eyal Eshel, padre della diciannovenne soldatessa Roni, si è detto “più rassicurato”. Poi si è rivolto al primo ministro Netanyahu: “Signor primo ministro, lei ha arruolato le ragazze, le ha mandate nell’esercito, noi chiediamo che le riporti a casa”. Meirav, madre di Guy Gilboa-Dalal che era al festival musicale di Re’im, ha detto di aver ricevuto “sostegno emotivo” durante l’incontro e che Herzog “è un uomo rispettabile, caloroso e amorevole”. Ha aggiunto che non hanno ricevuto alcuna notizia durante l’incontro e che ciò che desidera sentire è che “mio figlio sta tornando a casa. Voglio vedere in televisione che gli ostaggi sono tornati. Svegliarmi con una notizia del genere”.
Cohen sta usando la sua rete di contatti nei Paesi arabi, in particolare in Qatar, per riportare a casa gli ostaggi. Lo stesso stanno facendo alcuni ex dirigenti dello Shin Bet, l’intelligence interna, come l’ex capo Yaakov Peri a cui si sono rivolte alcune famiglie. Oltre al loro, c’è ovviamente il lavoro del governo: in particolare di Gal Hirsch, incaricato dal premier di gestire la questione, e di Ronen Levi, nome in codice Maoz, da inizio anno direttore generale del ministero degli Esteri, dopo una trentennale carriera nello Shin Bet e al Consiglio di sicurezza nazionale, tra gli architetti degli Accordi di Abramo che hanno portato alla normalizzazione delle relazioni tra Israele e alcuni Paesi arabi.
Nei giorni scorsi Cohen aveva risposto così a una domanda di Israel Hayom sulle difficoltà di un’operazione terrestre a Gaza alla luce degli oltre 200 prigionieri. “Questo rende la missione delle Forze di difesa israeliane più complessa, ma fa parte della nostra realtà. Non negoziamo direttamente con Hamas, non lo abbiamo mai fatto. Tuttavia, diversi intermediari sono probabilmente impegnati in sforzi per il loro rilascio”, ha aggiunto. Più recentemente, a Channel 12 News, ha inviato a “non avere fretta” per l’operazione terrestre. “L’assedio di Gaza è critico ed essenziale e, prima di entrare in un’area così satura di potenziali sorprese, anche l’intelligence dovrebbe essere aggiornata. Non appena le Forze di difesa israeliane saranno chiamate a intervenire, saranno pronte con tutte le sue forze”. Inoltre, “c’è una tensione intrinseca e difficile: perché da un lato diciamo ‘preparatevi’ e l’esercito continua a prepararsi con tutti i mezzi, dall’altro non si può rinunciare ad alcune opportunità per il rilascio degli ostaggi”, ha aggiunto.
Nell’intervista a Israel Hayom, Cohen aveva anche parlato di Hamas che va “eliminata” dalla Striscia e dell’Iran “presente in tutto il conflitto”. Aveva detto di aspettarsi un’indagine sugli errori di (sotto)valutazione. E aveva elogiato coloro che, tra gli addetti ai lavori, si sono assunti le responsabilità dell’impreparazione come Aharon Haliva, capo dell’Aman, l’intelligence militare.
“La classe dirigente civile dovrebbe fare lo stesso?”, l’ultima domanda. “Dovete chiederlo a loro. Sapete come raggiungerli”, la risposta laconica che in questa fase non può non far pensare al futuro, al suo in primis ma anche a quello di una classe dirigente, quella attuale, che rischia di saltare non appena lo scenario diventerà meno imprevedibile.