Sono passati esattamente quarant’anni da quando Giorgio Almirante motivava a Enzo Biagi le ragioni del proprio sostegno a una revisione della forma di governo in senso presidenzialista. Oggi il presidenzialismo si ripropone nelle sembianze del “premierato all’italiana”
Giorgia Meloni è intenzionata a sfatare tutti i tabù. Dopo aver portato la destra post-fascista alla guida del governo, dopo aver infranto il tetto di cristallo di Palazzo Chigi, la premier punta dritto sulle colonne d’Ercole della riforma costituzionale. Venerdì approderà in consiglio dei ministri la proposta di legge sul premierato e lì sarà, per dirla con i Clash, “death or glory”: la rovina, o la gloria.
Ma lei, si sa, è fatta così. Cresciuta a pane, amor patrio e fantasy, la leader di Fratelli d’Italia non ha paura di niente. Eccola, dunque, pronta a rispolverare il presidenzialismo – vecchio cavallo di battaglia del Movimento sociale italiano ripreso anche dal programma delle ultime elezioni – ammorbidito ad arte per non turbare i sonni del Quirinale.
Sono passati esattamente quarant’anni da quando Giorgio Almirante motivava a Enzo Biagi le ragioni del proprio sostegno a una revisione della forma di governo in senso presidenzialista. Utilizzando tutta la sua celebre eleganza verbale, il segretario dell’Msi evidenziava dagli studi di Repubblica: Atto II la necessità di liberare il governo dalla “servitù della partitocrazia” facendo in modo che “il presidente del Consiglio non sia tratto fuori dal forcipe della partitocrazia, ma venga nominato direttamente” da un Capo dello Stato eletto a suffragio diretto. Un’idea, questa, appartenente al Dna della Fiamma tricolore fin dalla prima ora, se si considera che il presidenzialismo era già presente tra i punti del programma stilato in occasione delle elezioni del 1948, le prime della Storia repubblicana.
Proprio il presidenzialismo fu in quegli anni uno dei punti di contatto tra il Movimento sociale e il Psi di Bettino Craxi, del quale via della Scrofa apprezzerà in particolar modo il pugno duro mostrato nei confronti di Washington durante la crisi di Sigonella dell’ottobre dell’85. Un piglio ducesco diventato bersaglio delle vignette satiriche disegnate da Giorgio Forattini per Repubblica, dove il segretario socialista veniva sistematicamente ritratto in camicia nera e stivaloni lucidi.
Il leader del Garofano introdusse la questione della “grande Riforma” nel fondo dal titolo Ottava legislatura apparso sull’Avanti! del 28 settembre 1979. Quello del presidenzialismo – vi si leggeva – “può essere considerato come una superficiale fuga verso una ipotetica Provvidenza, ma l’immobilismo è diventato dannoso”. Per uscire dalla palude partitocratica occorreva dunque un uomo forte: e Craxi, casualmente, lo era. Guardando al semi-presidenzialismo d’Oltralpe negli anni in cui all’Eliseo sedeva l’amico (e compagno) François Mitterrand, il futuro premier immaginava anche per l’Italia un Capo dello Stato in grado di trarre legittimazione diretta dal corpo elettorale. Una soluzione che – divenuto lui Presidente della Repubblica – gli avrebbe consentito di mettere finalmente in un angolo Pci e Dc con il provvidenziale “soccorso nero” dei missini. Di superare, insomma, quel “bipartitismo imperfetto” che ancora imbalsamava la politica italiana in un decennio “rampante” caratterizzato da leader con marcati tratti decisionisti: dalla Iron Lady britannica Margaret Thatcher al già citato Mitterrand passando per il presidente americano Ronald Reagan. Tanto bastò al ministro democristiano del Bilancio Beniamino Andreatta per definire il Psi un partito “di tipo nazionalsocialista”.
Non solo Craxi e Almirante. In verità, l’elezione diretta del Capo dello Stato era stata sostenuta già nell’immediato dopoguerra da padri costituenti del calibro di Piero Calamandrei ed ex partigiani di comprovata fede antifascista come il repubblicano Randolfo Pacciardi. Più avanti, a recuperarne la suggestione in chiave semi-presidenzialista sarà il segretario del Pds Massimo D’Alema, rimasto invischiato nel “patto” siglato con Berlusconi – e suggellato dalla famigerata “crostata” preparata dalla moglie di Gianni Letta – durante i travagliati mesi della terza bicamerale dal leader della Quercia presieduta tra 1997 e 1998. Dieci anni dopo, il Cavaliere proverà ad avanzare nuovamente la proposta, ancora una volta invano.
Non giriamoci intorno: le resistenze al presidenzialismo in Italia ci sono sempre state. E non tanto per una spontanea (e a tratti pigra) affezione alla Carta, quanto per una naturale avversione di larga fetta della pubblica opinione nei confronti dell’idea di “uomo forte” di mussoliniana memoria. Avversione tanto più marcata in un contesto – come quello primo-repubblicano – polarizzato nell’antitesi fascismo-antifascismo: lungo questo spettro ideologico, più ci si allontanava da destra e meno l’ipotesi era apprezzata.
Allo stesso modo funziona oggi che la “sindrome dell’uomo nero” torna prepotentemente alla ribalta contribuendo ad adulterare il dibattito sulla riforma dell’impianto istituzionale. Oggi il presidenzialismo si ripropone nelle sembianze del “premierato all’italiana” (copyright della ministra delle Riforme Casellati). In cosa consiste? Non è ancora chiarissimo. Da quel poco che trapela, si tratterebbe di una soluzione di compromesso che mira da un lato a tutelare le prerogative del capo dello Stato e dall’altro a preservare la sovranità del Parlamento.
Nella bozza in procinto di finire sul tavolo del Cdm, il presidente del Consiglio verrebbe eletto a suffragio universale diretto nell’ambito di un sistema maggioritario con premio del 55% su base nazionale. A conferirgli l’incarico il Presidente della Repubblica, che manterrebbe il potere di nomina della squadra di governo su indicazione del premier. In caso di cessazione dalla carica, il Capo dello Stato potrebbe riaffidare l’incarico al premier dimissionario o in alternativa assegnarlo ad altro esponente della medesima maggioranza (la cosiddetta “norma anti-ribaltone”). Sparirebbe infine la figura dei senatori a vita, vendetta postuma del centrodestra contro quella “casta della casta della casta” vituperata in tutte le salse nel corso dell’ultimo quindicennio: la qualifica resterebbe solo per gli inquilini emeriti del Colle.
Ci troviamo, in soldoni, di fronte a una rivisitazione del “Sindaco d’Italia” di renziana memoria. Nulla di strano, perciò, se il leader di Italia Viva si è già detto disponibile a sostenere la proposta. Proposta che però – come efficacemente sottolineato qui su Formiche.net da Andrea Cangini – rischia di tradursi in un “mezzo premierato debole” senza grosse novità: una tempesta in un bicchier d’acqua, insomma.
Consapevole di non poter contare sulla maggioranza qualificata del Parlamento – quella richiesta dall’articolo 138 della Carta per approvare una riforma costituzionale senza passare dalle urne – Giorgia Meloni ha messo in conto di sfidare la sorte sottoponendo il premierato al giudizio del popolo sovrano. Immemore, o forse no, delle disavventure di alcuni suoi illustri predecessori: da Craxi – il cui presunto appello ad “andare al mare” lanciato alla vigilia del referendum promosso nel ’91 da Mario Segni rimase inascoltato – a Renzi, costretto nel dicembre 2016 ad abdicare da Palazzo Chigi dopo essersi visto respingere da 6 italiani su 10 la proposta di riforma che recava il suo nome accanto a quello di Maria Elena Boschi. Riuscirà Giorgia a esorcizzare la maledizione del referendum? Intanto arriviamoci, al referendum: sarebbe già un primo passo.