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Golden power, cosa dicono le prime sentenze. L’analisi dell’avv. Picotti

Di Luca Picotti

Le sentenze aventi a oggetto l’esercizio dei poteri speciali sono ancora molto poche, non tali da poter formare un solido orientamento giurisprudenziale. Ma alcune, come quelle sull’operazione Syngenta-Verisem, fanno emergere un chiaro approccio verso le operazioni che coinvolgono la Cina. L’analisi di Luca Picotti, avvocato e dottorando di ricerca presso l’Università di Udine, autore di “La legge del più forte” (Luiss)

Il Golden power è diventato ormai uno strumento conosciuto anche a livello mediatico. Le sfide protezionistiche di questa fase storica, l’attenzione verso la Cina, i paradigmi emergenziali della pandemia prima e della guerra poi hanno riportato al centro del dibattito pubblico il tema della sicurezza nazionale. Da qui, quello dei poteri speciali governativi a tutela dei settori strategici. Si pensi al recente caso Pirelli, in cui il governo Meloni ha sostanzialmente riscritto il patto parasociale tra il socio cinese e quello italiano per ridimensionare i poteri del primo. Cosa possono fare i privati contro l’ingerenza governativa nelle operazioni societarie? Teoricamente i provvedimenti di esercizio dei poteri speciali (Dpcm) sono sindacabili in sede giurisdizionale innanzi al Tar Lazio. Sorge dunque spontanea la domanda: cosa dicono o hanno detto in merito i giudici italiani in questi anni? Come si sono mossi in questo delicato campo, al confine tra diritto e politica?

Le sentenze aventi a oggetto l’esercizio dei poteri speciali sono ancora molto poche, non tali da poter formare un solido orientamento giurisprudenziale. Questo per una ragione molto semplice, come evidenziato dall’Osservatorio Golden Power dell’Università di Trento, diretto da Michele Carpagnano, che al tema ha dedicato diversi lavori: fino al 2020 abbiamo avuto solo un’ipotesi di esercizio dei poteri tramite il veto – l’opposizione all’acquisizione di Next Ast da parte del gruppo francese Altran nel 2017 – mentre per il resto sono state imposte tuttalpiù le specifiche prescrizioni. Un conto è cimentarsi in un procedimento di impugnazione del provvedimento governativo perché l’operazione è stata vietata dal governo, un altro è attivare tale strada quando l’operazione viene pur sempre avallata, seppure con delle condizioni. Poi è chiaro, talvolta tali prescrizioni possono essere piuttosto gravose o comunque discutibili; per esempio, nella vicenda Tim-Vivendi, sempre del 2017, in cui sono state imposte delle condizioni con un controverso provvedimento, è seguito un lungo contenzioso amministrativo, sfociato di recente in una sentenza del Consiglio di Stato che ha dato ragione al governo (Cons. Stato 5 luglio 2023 n. 6575). In ogni caso, in generale, lo scarso utilizzo dello strumento fino al suo ampliamento nel 2020 – per l’emergenza pandemica – ha impedito lo svilupparsi di un orientamento giurisprudenziale in merito.

A partire dal 2020, con il rafforzamento della normativa, i mutamenti del contesto internazionale e il deflagrare delle notifiche, l’esercizio dei poteri speciali ha interessato maggiori operazioni, con provvedimenti di veto che hanno lasciato insoddisfatti diversi investitori esteri. Per esempio, nel 2020 abbiamo avuto 2 veti/opposizioni. Nel 2021 addirittura 3. Ancora, nel 2022 sono cresciuti a 4. In questo senso, soprattutto nel biennio 2022-23, sono emerse anche le prime importanti pronunce in merito all’esercizio dei poteri speciali, che permettono di abbozzare alcune riflessioni di carattere preliminare sull’approccio dei giudici amministrativi.

È in particolare l’operazione Syngenta-Verisem quella che ha dato origine alle due pronunce più approfondite e interessanti. Trattasi di un caso di opposizione all’acquisizione da parte della cinese Syngenta AG di talune controllate del gruppo Verisem, attive nel campo agroalimentare. L’operatore estero, riconducibile al governo della Repubblica Popolare, ha deciso di impugnare il provvedimento di esercizio dei poteri speciali (dpcm 21 ottobre 2021), invocando l’insussistenza dei requisiti di strategicità degli asset e comunque la non proporzionalità dello stesso. La vicenda è sfociata in un rigetto del ricorso da parte del Tar nell’aprile 2022 (Tar Lazio 13 aprile 2022 n. 4486), con conferma di tale pronuncia in secondo grado da parte del Consiglio di Stato nel gennaio 2023 (Cons. Stato 9 gennaio 2023 n. 289). In entrambe le sentenze, vengono delineati i principi fondamentali attorno a cui ruota il sindacato dei provvedimenti di esercizio dei poteri speciali. 

In primo luogo, i giudici ribadiscono l’importanza di una rigorosa istruttoria, nonché la salvaguardia del principio di legalità – già affermato da due precedenti pronunce, nel caso Retelit (Tar Lazio 24 luglio 2020 n. 8742) e caso Anas (sfociato in Cons. Stato 26 aprile 2022 n. 3214). Dopodiché, una volta specificato il perimetro formale-procedurale da rispettare, riconoscono, di fatto, i limiti del sindacato giurisdizionale in tema di golden power. Difatti, ammette il Tar Lazio, i provvedimenti di esercizio dei poteri speciali sono connotati da una “amplissima discrezionalità, in ragione della natura degli interessi tutelati, attinenti alla sicurezza nazionale”. Le decisioni vengono ricondotte, di conseguenza, alle scelte di alta amministrazione, dimensione ibrida e metagiuridica in cui il confine tra politica e diritto si fa poco nitido. Gli atti di alta amministrazione, infatti, sono “come tali sindacabili dal giudice amministrativo nei ristretti limiti della sussistenza di una manifesta illogicità delle decisioni assunte”. Per quanto concerne poi la strategicità degli asset, i giudici si sono focalizzati sul patrimonio informativo, il know-how e le tecnologie detenute dalle società italiane del gruppo Verisem, piuttosto che sulla centralità o meno delle stesse nel mercato professionale delle sementi vegetali, aspetto che secondo la ricorrente non era stato sufficientemente valorizzato dall’amministrazione. Infine, con riferimento alla scelta di imporre il veto in luogo delle specifiche condizioni, la conclusione del Tar Lazio è abbastanza emblematica: dal momento che dietro alla società acquirente si nascondeva il governo cinese, non sarebbe stato possibile attuare misure realmente efficaci. Tradotto: quando c’è di mezzo Pechino, ogni veto è legittimo.

Tale sentenza è stata di recente confermata dal Consiglio di Stato, che ha adottato toni ancora più incisivi per quanto concerne l’intrinseca politicità del golden power. Scrive il Collegio: “Il Consiglio dei Ministri, in sostanza, non si limita ad una ricognizione atomistica, puntiforme e, per così dire, ‘contabile’ ed anodina delle caratteristiche specifiche dell’operazione, ma la traguarda nell’ambito e nel contesto dei fini generali della politica nazionale, ponderandone gli impatti sia sull’assetto economico-produttivo del settore socioeconomico interessato, sia sulla più ampia struttura dell’economia nazionale, sia, infine, sui rapporti internazionali e sul complessivo posizionamento politico-strategico del Paese nell’agone internazionale”. Ancora, dopo avere legittimato l’ampia discrezionalità, la circostanza per cui l’interesse nazionale non si determina a priori ma a posteriori e il fatto che proprio tale aspetto esige una normativa flessibile che permetta al governo di esprimere la propria valutazione generale, i giudici si soffermano sulla tutela degli interessi fondamentali dello Stato: “Il potere di golden power, infatti, rappresenta il limes provvedimentale posto dalla legge a garanzia ultima dell’interesse nazionale nelle specifiche macro-aree economiche prese in considerazione; come tale, e proprio in quanto dettato a tutela di interessi fondamentali (‘strategici’) della collettività nazionale come discrezionalmente apprezzati dal Consiglio dei Ministri, esige un fondamento normativo altrettanto ampio, elastico, flessibile ed inclusivo, che consenta di apprestare la massima e più efficace tutela agli (assai rilevanti) interessi sottostanti: in tale specifica ottica, esula qualunque addebito di indeterminatezza e genericità”.

Le conclusioni del Consiglio di Stato risultano, dunque, piuttosto nette, e vanno a giustificare qualsivoglia utilizzo discrezionale dello strumento giuridico del golden power, in modo non dissimile, di fatto, da quanto accade negli Stati Uniti. Inoltre, nella pronuncia vi è pure un passaggio che si sofferma – in ottica probabilmente preventiva – sulla compatibilità della normativa con l’art. 41 della Costituzione, valorizzando il fine dell’utilità generale in tema di limiti all’iniziativa economica privata. Tutto questo, aggiunge chi scrive, quantomeno quando come controparte vi è Pechino. Un tale indirizzo giurisprudenziale difficilmente potrà porsi con la stessa assertività nei confronti di società europee, salvo non volere rischiare frizioni con il diritto unionale. Da questo punto di vista, la sfida per la giurisprudenza è ancora aperta. Per quanto concerne invece il sindacato di provvedimenti contro acquisizioni extra-Ue – leggasi Cina – l’orientamento dei giudici pare piuttosto fermo. L’atto di alta amministrazione, gli interessi nazionali, la postura internazionale dello Stato, circoscrivono qualsivoglia sindacato solo a casi eclatanti di manifesta irragionevolezza. Oppure a vizi palesi procedimentali – in generale, l’unico annullamento di un provvedimento golden power è avvenuto proprio per vizi procedimentali, non per un sindacato di merito (caso Retelit). Per il resto, e in attesa di nuove pronunce, trattasi, semplicemente, e in ultima istanza, di politica. Un aspetto cui i privati, volenti o nolenti, dovranno tenere conto.



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