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Io, non berlusconiano, dico: Berlusconi ha ragione

Come scriveva nell’agosto 2013 Piero Ostellino (pare inascoltato dal resto del corpo redazionale di un «Corriere della Sera» sempre più impigliato in un giustizialismo dozzinale e portavoce delle procure non certo per un terzismo che a via Solferino non possiedono più da epoca remota), l’agibilità politica non è esercitazione retorica. «È la possibilità di chiunque di pensare e di dire ciò che pensa persino dal carcere; chi crede di essersi liberato di Berlusconi per via giudiziaria si fa qualche illusione». L’agibilità è un fatto, non è un’opinione attorno alla quale misurarsi, come stanno facendo talune forze politiche, quasi si trattasse di un optional.

L’agibilità politica è la somma e l’estrinsecazione di quei diritti che si dovrebbero ritenere innati e, comunque, sono costituzionali e irrinunciabili. Come la libertà d’espressione e l’esercizio concreto di molti tipi di libertà. Come la libertà di comportamenti propri di ciascun soggetto individuale e collettivo. Come la libertà di pensare e di agire senza limitazioni dovute a etnia, fede religiosa, sesso, età o che ripugnino alla coscienza di qualcuno. L’agibilità politica ovviamente confligge con le logiche di una giustizia autoritaria. Ciò non significa che, in nome dell’agibilità politica, si possa rivendicare, da una parte, il rispetto delle sentenze e, dall’altra, negare che le sentenze, comunque originate e motivate, sono senza dubbio imposizioni – previste dalle leggi, ma pur sempre modificabili – cui si soggiace, ma che si è liberi – a buon diritto, e non per occasionale concessione – di non condividere.

L’Italia – ci si ricorda di sottolinearlo soltanto in speciali situazioni – è una democrazia giovane; quasi che tale relativa giovinezza giustifichi l’ignoranza dei fondamentali di una democrazia reale. Siccome siamo, però, anche un popolo di smemorati, ed anche di cinici che accantonano la coscienza quando questa svicola per la tangente dell’opportunismo, ci disinteressiamo delle analisi, dell’esame delle ragioni diversificanti se non divaricanti, tendendo facilmente a complicarci la vita. Una vita che nel 2013 è purtroppo già complicata di per sé; e per i forti condizionamenti di un’Europa che non è affatto quella vagheggiata dai grandi europeisti.

Ma oggi, in pieno 2013, ci troviamo dinanzi ad un duplice rischio: di una agibilità politica condizionata, all’esterno, da una serie di alti funzionari bruxellesi che decidono quali devono essere i nostri comportamenti interni; mentre, all’interno, altri funzionari, entrati nella pubblica amministrazione con concorso, e cresciuti in carriera per gradi di anzianità, essendosi trasformati, da ordine che erano, in un potere, in nome di una indipendenza che nessuno sostanzialmente loro nega, possono intervenire nell’agenda politica nazionale e nella stessa vita istituzionale, parlamentare e dei partiti. Con sudditi, quali siamo diventati, tenuti – si sostiene – ad inchinarci, subordinarci, obbedire senza neppure discutere, se soltanto accenniamo a criticare i loro eccessi comportamentali. Che in concreto si risolvono con l’apportare un ulteriore squilibrio nei poteri dello Stato; e non a vantaggio della democrazia.

Non è solo il partito di Berlusconi a essere minacciato da una inagibilità politica a causa di una discutibile condanna definitiva, «strana» persino nelle modalità e nelle motivazioni in cui è stata espressa. È l’intera democrazia italiana che, potendo forzosamente venir meno il capo di un partito importante del sistema politico nazionale, potrebbe deprivare circa un terzo degli italiani non soltanto del suo leader, ma della stessa possibilità di riconoscersi in uno dei tre pilastri su cui poggiano, da qualche mese, il fragile equilibrio istituzionale e un governo eccezionale non per virtù propria, bensì per essere frutto di una intesa tra due forze tradizionalmente antagonistiche e non abituate a collaborare fra loro.

Ciò per sottolineare che lo stesso secondo mandato presidenziale di Napolitano, non voluto da un Pd che non è stato capace di far salire al Quirinale Franco Marini e ha trattato Romano Prodi come un quidam qualsiasi, non è emerso miracolosamente dalle macerie dell’anomalo bipolarismo italiano; ma è il risultato consapevole di una iniziativa di Berlusconi per rendere agibili la politica e le istituzioni dopo il sisma elettorale.

Nel silenzio clamoroso dell’accademismo togato, ha dovuto provvedervi un giornalista autorevolissimo superpartes, Piero Ostellino. Non, però, sul giornale («Corriere della Sera), di cui è stato anche direttore e che sbanda fra un timido garantismo e un cinico giustizialismo ma su «Il Foglio» (27 agosto 2013).

Ostellino ha posto all’attenzione di politici e parlamentari una osservazione oggettiva incontestabile e che è alla base del sistema odierno: «L’obbligatorietà dell’azione penale genera mostri; il più colossale, e vergognoso, dei quali – che ha, di fatto, trasformato la nostra repubblica in una repubblichetta delle banane nelle mani di caudilli in toga – è la distinzione, che una parte della magistratura fa, quando apre un fascicolo su qualcuno, fra “chi non sapeva”, che è ontologicamente non colpevole (innocente in se stesso), e chi “non poteva non sapere”, che è teoricamente colpevole (per deduzione accusatoria)».

La richiesta di agibilità politica è giustamente avanzata dalla parte rimasta vulnerata da una pessima sentenza motivata in maniera incredibile. Ma anche chi non militi né vota per il partito ferito quasi a morte per via giudiziaria, ha fortemente da temere che il degrado della politica aizzi l’arbitrio giustizialista e, prima o poi, metta a tacere anche quanti, oggi, si compiacciono di poter risultare avvantaggiati da un’azione extrapolitica non propriamente encomiabile, né democratica.

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