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Mezz’ora di lavoro al giorno senza retribuzione e il “posto” è salvaguardato. Lo scambio è accettabile?

Mezz’ora di lavoro gratis al giorno per salvare l’azienda e se stessi. Questa è la “strana” richiesta che un’azienda della provincia di Belluno, la Joint & Welding, ha proposto ai suoi dipendenti.  Il caso ha sollevato un polverone e suscitato reazioni contrastanti. Il punto è semplice: se un’azienda è in una fase di crisi conclamata e per recuperare competitività chiede un po’ di lavoro gratuito ai dipendenti, è uno scandalo? Si tratta di salvare il posto di lavoro in tempi difficili, in cui trovarne un altro è sempre più un’impresa. Questo il ragionamento.

L’azienda in questione, tra l’altro, è disponibile per il futuro, superata la bufera, a pagare le ore lavorate senza retribuzione frutto del discusso accordo. Ovviamente, sperando che attraverso questo escamotage il fatturato riprenda quota.

E i dipendenti della Joint & Welding come l’hanno presa? La quasi totalità degli operai ha mandato giù il rospo e hanno accettato la proposta, tranne due. A partire da questi giorni, quindi, gli operai di questa azienda rinunciano a due pause giornaliere di 15 minuti ciascuno. E’ prevalso l’istinto di sopravvivenza – meglio un sacrificio che perdere il lavoro – rispetto a tutti i ragionamenti sui diritti del lavoratore e i rapporti sindacali tradizionali.

Chi non l’ha presa bene, invece, sono stati proprio i sindacati.  In particolare, la Fiom della provincia bellunese ha reagito a muso duro e chiesto l’annullamento dell’accordo e l’avvio di “un negoziato serio”.  L’appello del sindacato guidato da Landini, tuttavia, non ha suscitato particolari contraccolpi o indebolito l’intesa tra lavoratori e azienda.

Le altre sigle sindacali, invece, hanno espresso una posizione più articolata. Dario Di Vico, ha riportato sulle colonne del Corriere della Sera le dichiarazioni di Franca Porto, segretario regionale della Cisl del Veneto, la quale ci ricorda come “accordi di questo tipo non si scrivono nemmeno più, ci si scambiano in fabbrica degli affidamenti ma non si mette niente su bianco.  Sono tentavi disperati, spesso ai limiti della decenza sindacale e riflettono due fenomeni. L’angoscia per il rischio di veder morire le imprese e l’attaccamento degli operai all’azienda. Alla fine della crisi ci accorgeremo che questa complicità farà la differenza. Si rivelerà una risorsa”.

Altri sollevano questioni di legittimità contrattuale. Questo tipo di accordo è in deroga, illegittima, alle regole del contratto nazionale di lavoro. In sostanza, è fuori dal quadro di regole nazionali e potrebbe causare contraccolpi in sede giudiziaria. Staremo a vedere se la via del ricorso legale prevarrà.

La condizione fondamentale, nel frattempo, per rendere accettabile uno scambio simile è l’obiettivo pratico che ci si pone: ossia, il recupero della competitività e della produttività dell’azienda. Se la logica di questi accordi, invece, è puramente contabile e mira alla sola riduzione dei costi, l’esito sarà comunque la probabile chiusura.

E i contratti di solidarietà? Per rimanere, invece, in un quadro di normalità e “legalità” contrattuale e sindacale, c’è chi pensa all’utilizzo degli strumenti tipici che si attivano in questi casi, come il contratto di solidarietà. Lo ha rivendicato anche il sociologo Paolo Feltrin, sempre a Dario Di Vico sul Corriere della Sera, a commento della vicenda. Questo tipo di contratto, in sostanza, prevede nei casi di calo della produzione, la riduzione contestuale dell’orario di lavoro di circa il 50 per cento, in modo da non dover licenziare nessuno. La conseguente riduzione dello stipendio è coperta con un contributo dell’Inps fino all’80% della retribuzione.

Visti i livelli salariali italiani, probabilmente i lavoratori preferiscono lavorare mezz’ora gratis in più ma con salario pieno piuttosto che metà tempo con salario ridotto. E per questa semplice constatazione, forse, che la prassi del lavoro gratis si sta diffondendo come inedito ammortizzatore sociale.



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