Quello dello scorporo delle spese per la Difesa dalla tenaglia dei parametri di stabilità è una ulteriore iniziativa che il ministro sta portando avanti in un percorso complessivo a sostegno dell’architettura militare italiana ed europea. E per il generale Leonardo Tricarico, è una buona notizia
Non si può non condividere, e plaudire, a questa ulteriore iniziativa di Guido Crosetto andata a buon fine con lo scorporo delle spese per la Difesa dalla tenaglia dei parametri di stabilità, destinati però nel tempo a rafforzare la loro cifra di fiscalità e rigore.
Ulteriore iniziativa, perché il ministro della Difesa sta mettendo mano – auspicabilmente in maniera non casuale – ad una serie di argomenti considerati finora tabù, nervi scoperti del sistema Italia da non sfiorare, quali l’esportazione dei materiali di armamento e la giustizia.
Che i temi evocati fossero polvere destinata a restare sotto il tappeto lo si è capito subito dalle reazioni scomposte, ed emblematiche di una politica che privilegia la rissa sistematica e puntuale agli approfondimenti la cui necessità dovrebbe essere fuori discussione.
Francamente è difficile comprendere come di fronte a parole sovversive – non c’è altra possibile lettura – pronunciate pubblicamente da alcuni magistrati si preferisca mettere in stato di accusa chi ha denunciato il fatto più che cercare di capire il grado di infezione nel corpo della magistratura.
Tutto ciò considerato, vi è da augurarsi che quelli di Crosetto siano solo i primi passi di un percorso da coprire nell’arco della legislatura.
E per quanto attiene in particolare alle spese per la difesa, numerosi sono gli interventi da cantierare, a cominciare dall’entità del bilancio della Difesa, da quel fatidico 2% del Pil che la Nato sta da tempo reclamando. Largamente inascoltata.
La sensazione, forse il concreto rischio, è che gli Stati Uniti, laddove dovessero cadere ancora in mano a Trump, possano dar seguito alle minacce di un sostanziale disimpegno fatto balenare fin troppo esplicitamente in più di una occasione.
A quel punto i parametri di condivisione degli oneri andrebbero rivisti a livelli ben più robusti ed il 2% potrebbe non rappresentare neppure la soglia minima di impegno.
La spesa poi andrebbe riqualificata, rispondendo alla semplice domanda di che cosa serva veramente per edificare una difesa comune.
Oggi ogni paese pensa a sé stesso, se si dovessero sommare aritmeticamente e geometricamente gli eserciti dei 27 membri se ne ricaverebbe uno strumento multiforme, incompleto, in alcune articolazioni ridondante in altre deficitario, non sempre interfacciabile nelle varie capacità, un’orchestra che non ha mai suonato insieme, dotata di strumenti uno diverso dall’altro, probabilmente divisi sullo spartito da interpretare nelle varie circostanze.
Ma ancor prima di una razionalizzazione complessiva, andrebbe scritta ex novo una dottrina di impiego della forza che possa attagliarsi con gli scenari per i quali ormai anche la fantasia viene spesso superata dalla realtà, andrebbe operato uno sforzo progettuale comune atto a conferire efficacia e flessibilità alle future forze armate.
Solo a valle di una fase concettuale di tale portata si potrà avere la percezione precisa di come impiegare le risorse, non prima.
Invece oggi tutto è lasciato alla perspicacia, alle intuizioni ed alle decisioni più o meno oculate di ogni singolo paese. Quando non agli interessi di carattere industriale, gli unici oggi capaci di generare progetti comunitari ma che pur sempre restano espressione di scelte incubate e sviluppate fuori dagli Stati maggiori.
Ecco perché spendere oggi risorse per la Difesa è un esercizio alquanto complesso, da incardinare saldamente nell’alveo di una progettazione coerente con i variegati scenari di crisi e con un occhio sempre rivolto ad uno strumento militare comune.