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Popolari, una storia non chiusa anche per il bene delle Chiesa. Il commento di Chiapello

Di Giancarlo Chiapello

Intersecare la questione della presenza dei cattolici, con quella della loro migliore tradizione politica, il popolarismo, vuol dire forse trovare nuove formule per la ricostruzione che non possono non passare dalle reti popolari europee ed internazionali, anche per partecipare a prendersi cura della dimensione ecclesiale

In queste settimane si sono intrecciati, in diversi articoli variamente usciti, il dibattito sulla presenza politica dei cattolici e quello sulla presenza storica della Democrazia Cristiana: la questione è assai rilevante perché, se ci limitassimo ai dati Istat si tratta di un bacino che idealmente riguarderebbe 12 milioni di italiani (coloro che frequentano la Chiesa, tralasciando la più alta percentuale di chi si dice credente) che si connette, superando finalmente la costruzione della “leggenda nera” costruita all’inizio della sedicente seconda repubblica, con la storia dell’organizzazione della migliore tradizione politica di cattolici che dal Ppi di Sturzo si collega direttamente con la Democrazia Cristiana e con l’avvio del ragionamento e dell’impostazione dell’azione su come ridare voce politica ai cattolici.

Stupisce che in queste riflessioni nessuno riprenda la direzione chiara tracciata dal messaggio al gruppo europarlamentare del Ppe di Papa Francesco, ma la cosa potrebbe spiegarsi col fatto che molti protagonisti della diaspora preferiscano analisi autoassolutorie di una storia andata male, quando hanno avuto in mano, come generazioni, il potere decisionale e le parole del Santo Padre farebbero emergere le contraddizioni.

Al netto della necessità di svecchiare questi dibattiti, che devono prendere atto preliminarmente del fallimento della frattura tra cattolici della morale e cattolici del sociale, tra progressisti e conservatori, per sgombrare il campo da contrasti eteroindotti e sudditanze ideologiche, lo si veda ad esempio in ambienti che non comprendono la lezione popolare, cristallina di un Alberto Monticone (traducibile nell’espressione-appello del professore, “adesso per il domani”) ascoltando di più chi ne è andato lontano e in direzione contraria ed avversa come Castagnetti e in iniziative ecclesiali storicamente importanti ma da tempo di nessuna ricaduta civile, si può innanzitutto prendere in considerazione il fatto che la dimensione politica unitaria ed organizzata, quale frangiflutti ideologico è stata utile alla dimensione ecclesiale e pare, a distanza di anni dal suo inabissamento, si possa tornarne ad auspicare una sua rimessa in funzione trovando in primis una chiave europea insieme a cattolici, popolari, democristiani che nei diversi paesi si ritrovano ad animare la comune casa. Questo contraddice la sostanziale concordia della conclusioni della recensione di Marco Follini al testo “Storia della Democrazia Cristiana. 1943-1993”, Il Mulino, di Guido Formigoni, Paolo Pombeni e Giorgio Vecchio apparsa su La Stampa col titolo “La parabola della Democrazia Cristiana . Partito-paese fagocitato dalla destra” e dell’articolo, che prende le mosse dallo stesso testo, di Pier Ferdinando Casini dal titolo “La Dc non tornerà più. Bonaccini invece sì, sa allargare il consenso” apparso su La Repubblica.

È uno storico, non sempre condivisibile, che di fatto risponde a questa impostazione di pensiero e anche alla riduzione di una storia a formulette (o “burlette” per usare una definizione cara al don Camillo di Guareschi) per continuare a giocarsi qualche partitella più o meno individuale. Infatti su Avvenire Agostino Giovanioli, nell’editoriale dal titolo “Non viviamo tempi normali” afferma, pur prendendo le mosse da dinamiche a sinistra che dovrebbero far approfondire la sudditanza verso impostazioni transumaniste, tra l’altro: “I cattolici non trovano il loro posto nella politica italiana, ma la politica italiana non trova pace senza cattolici … indubbiamente non è affatto obbligatorio che credenti, uniti da una comune fede nel trascendente, si uniscano anche sul terreno del contingente della politica, ma se lo hanno fatto nell’Italia post-bellica non è stato per l’ordinaria amministrazione ma per un’azione straordinaria: consolidare in profondità una democrazia che il fascismo aveva così facilmente distrutto. Hanno cercato di farlo attuando il “programma” della Costituzione che impegna la Repubblica a rispettare la dignità della persona umana e rimuovere gli ostacolo che ne impediscono la piena realizzazione. Si sono svincolati perciò dalla subalternità ad altre forze politiche – la regola in età liberale, durante il fascismo, e anche oggi: la Dc è stata in questo senso un’eccezione – convinti di dover perseguire molto di più di una qualsiasi politica di centro”.

Ecco emergere il contrasto: da una parte la narrazione di un fatto presentato finito di un accidente della storia, pur significativo, la cui memoria fa curriculum, dall’altra un’eccezione fatta di autonomia di cui si sente la mancanza di fronte al disastro della formula imposta destra/sinistra tra cui i tanti ex democristiani si sono distribuiti forgiando “formulette” ma perdendo l’anima democratico cristiana, ossia l’autonomia.

È del tutto evidente che questo comporta il riandare per un “pedigree” coerente, non schiacciato su una “qualsiasi politica di centro”, alla difesa proprio dell’autonomia di Mino Martinazzoli e alla resistenza popolare di Monticone e Gerardo Bianco per comprendere che la storia non si è chiusa, si è solo inabissata come un fiume carsico nei territori un’Italia popolare che, pur snobbato dalla vecchia dirigenza, non ha mai interrotto una continuità ideale, che non significa meramente fotocopiare nell’oggi l’organizzazione di ieri, ma portare nel domani un testimone che non può più essere schiacciato dalle formulette assunte a funzioni di totem distruttivi, ieri il “centrosinistra unito” per la fine del Ppi oggi il “centrodestra unito” per quella di FI.

Intersecare la questione della presenza dei cattolici, quindi, con quella della loro migliore tradizione politica, il popolarismo, vuol dire forse trovare nuove formule per la ricostruzione che non possono non passare dalle reti popolari europee ed internazionali, anche per partecipare a prendersi cura della dimensione ecclesiale facendo memoria della lezione di San Paolo VI.

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