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Verso la nazionalizzazione dell’IA? Sforzi e sfide dei Paesi nel mondo

Il potenziale dell’intelligenza artificiale ha pesanti implicazioni per l’interesse nazionale, e sono almeno sei i Paesi (all’infuori di Stati Uniti e Cina) che già investono massicciamente per creare modelli autoctoni. Ma non è detto che i loro sforzi verranno ripagati. Ecco perché rincorrere Washington sarà sempre più difficile

Il 2023 verrà ricordato come l’anno in cui l’intelligenza artificiale, attraverso i chatbot come ChatGPT, ha fatto irruzione nella coscienza collettiva. Negli ultimi dodici mesi la consapevolezza di quanto sia progredita l’IA, specie quella generativa, ha dirottato miliardi verso lo sviluppo di sistemi più complessi, ribaltato strategie e fortune di giganti tecnologici e attirato l’attenzione di politici e regolatori. L’impatto economico previsto di questa tecnologia, secondo una stima di PwC, potrebbe raggiungere i 15.700 miliardi di dollari a livello globale entro il 2030 – cifra comparabile al pil della Cina.

Il 2024 potrebbe non essere da meno, e non solo per come verrà regolato il rapporto tra IA e società (obiettivo che la presidenza italiana del G7 ha fatto proprio): più diventa evidente il potenziale di questa tecnologia, più gli Stati guardano a essa attraverso la lente dell’interesse nazionale. Che sia declinato nella sfera militare o in quella economica, sociale, giuridica, culturale, accademica e tutte le loro intersezioni, il potenziale di questa tecnologia abilitante sta portando una serie di aziende e Paesi a lanciarsi nel tentativo di creare large language models (Llm, la tecnologia alla base dei chatbot) fatti su misura.

Si tratta, in fondo, di poter disporre di una tecnologia critica senza doversi affidare ai prodotti stranieri. E le novità delle ultime settimane (raccolte dall’Economist) evidenziano la tendenza. A fine novembre gli Emirati Arabi Uniti hanno lanciato una nuova società di IA sostenuta dallo Stato, AI71, che mira a commercializzare un nuovo Llm, Falcon. L’obiettivo dichiarato da Faisal al-Bannai dell’Advanced Technology Research Council di Abu Dhabi, l’agenzia statale dietro la startup, è che AI71 “competa a livello globale con aziende del calibro di OpenAI”, il creatore di ChatGPT in cui Microsoft ha investito 27 miliardi di dollari nello scorso anno.

Poco dopo la francese Mistral, che lavora da mesi sui propri Llm, ha annunciato un round di finanziamento da 400 milioni di dollari che potrebbe portare la sua valutazione oltre i 2 miliardi di dollari – il tutto mentre il governo la porta in un palmo di mano come simbolo dell’ambizione del presidente Emmanuel Macron di sviluppare risposte europee ai giganti statunitensi. Dopodiché Krutrim, una nuova startup indiana, ha presentato il primo Llm multilingue della nazione, appena una settimana dopo che la rivale Sarvam ha raccolto 41 milioni di dollari con lo stesso obiettivo. Nelle parole del fondatore di Krutium Bhavish Aggarwal gli Llm in lingua inglese “non possono catturare la nostra cultura, la nostra lingua e il nostro ethos”.

A Emirati, Francia e India si affiancano Arabia Saudita, Germania e Regno Unito per livello di dedizione: insieme questi sei Paesi hanno promesso di finanziare lo sviluppo dell’IA per una cifra complessiva di 40 miliardi di dollari. Cifre da capogiro che però non reggono il confronto con gli sforzi di Stati Uniti e Cina, che da soli hanno promesso di mobilitare cifre anche superiori. Il grosso dei fondi andrà nell’acquisto del tipo di chip necessari per addestrare Llm più potenti, quelli che hanno fatto la fortuna di Nvidia nel 2023 e che il governo statunitense lavora, in accordo con gli alleati, per tenere fuori dalla portata di Pechino. Che da parte sua sta versando centinaia di miliardi di dollari nella propria autonomia tecnologica, per non dover dipendere dai prodotti stranieri, e sostiene i campioni nazionali come Baidu (l’equivalente di Google) che ha presentato il proprio chatbot “Made in China” Ernie a poche settimane dall’avvento di ChatGPT.

La competizione tra Washington e Pechino sta già impattando lo sviluppo di altre alternative nazionali, specie considerando il controllo statunitense sull’ecosistema dei chip e la chiara intenzione dell’amministrazione di Joe Biden di stringere le maglie sul settore dell’IA. Per esempio, a dicembre la startup emiratina G42 ha annunciato che avrebbe tagliato i legami con i fornitori di hardware cinesi come Huawei perché “non [può] lavorare con entrambe le parti”, come ha detto il ceo Peng Xiao al Financial Times. Del resto, dall’ultimo giro di vite statunitense, serve una licenza per poter acquistare i chip IA di Nvidia.

Tuttavia, non è detto che i miliardi mobilitati dai Paesi si traducano in Llm efficaci, potenti e competitivi. Anzitutto c’è il tema della disponibilità dei dati e del vantaggio congenito dei Paesi anglofoni, che possono rifarsi a quantità immense di contenuti qualitativamente validi su internet. Se è vero che i governi nazionali potrebbero mettere al servizio della causa i propri dati (come quelli sanitari, fiscali e non solo, ammesso e non concesso che al pubblico vada giù) i loro modelli “nazionalizzati” potrebbero non reggere il passo con lo sviluppo di quelli anglofoni. Per non parlare di come il controllo delle autocrazie sui contenuti, sia quelli su cui si addestrano i sistemi che quelli che possono generare, può finire per inibire la loro utilità.

C’è di più. Se i governi come quello statunitense limitassero l’accesso agli Llm open source – di cui realtà come Baidu si sono probabilmente avvalse per rincorrere i rivali Made in Usa – i rivali potrebbero vedersi tagliare l’accesso a strumenti utili per sviluppare i propri sistemi IA. Biden, da parte sua, ha sollevato questa prospettiva verso fine 2023. Ed è difficile che Washington vorrà ridurre volontariamente il vantaggio che il sistema accademico-industriale statunitense continua ad accumulare.


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