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Come e perché occorre finalmente una legge sul lobbying. L’opinione di Tivelli e de Crescenzo

Di Luigi Tivelli e Armando de Crescenzo

L’intervento di Luigi Tivelli, già Consigliere Parlamentare della Camera e Capo di Gabinetto, residente dell’Academy di cultura “Giovanni Spadolini”, e Armando de Crescenzo, abilitato alle funzioni di professore associato in diritto costituzionale e funzionario pubblico

Recenti vicende hanno portato all’attenzione la questione delle lobbies e del lobbying in questo Paese. Tra queste, la vicenda che ha colpito, tra i più noti, il giovane Verdini (e sulla quale bisognerà vedere quali saranno gli sviluppi e gli esiti giudiziari) è relativa proprio all’attività di una società di lobbying. Ma non solo. Continua a girare ad opera di non più di qualche personaggio o personalità la litania “lobbisti e affaristi”, dando sostanzialmente lo stesso significato ad entrambe le dimensioni.

L’Italia è quasi l’unico tra i Paesi occidentali in cui non c’è una disciplina del lobbying e si capisce a fatica per quali canali non disciplinati e legalizzati maturi l’attività dei gruppi di pressione, pur in presenza di qualificate società di lobbying. In seno alla sterminata letteratura sul lobbying negli Stati Uniti, ricorrono, in vari manuali, due concetti, “ungere le ruote”, a volte nel titolo o nel sottotitolo, e “le tre b”, attraverso le quali viene esercitato soprattutto il lobbying, boobs, bubbles e billets, seni, bollicine e soldi. Ma, a parte queste notazioni di colore, negli Usa, come avviene in termini per certi versi analoghi in vari altri Paesi occidentali, il lobbying ha un preciso fondamento costituzionale. In particolare, il Primo Emendamento alla Costituzione americana del 1791, in cui è sancito il “diritto del popolo di riunirsi pacificamente e rivolgere petizioni al governo”.

Al di là del dato costituzionale è noto che l’attività di lobbying sia stata, sin dal Foreign Agents Registration Act del 1938 (ed emendato nel 1966) e dal Federal Regulation of lobbying Act del 1946, dettagliatamente disciplinata. Il modello statunitense, pertanto, è caratterizzato da un’attenta disciplina che nasce dall’esigenza di evitare degenerazioni di un fenomeno che possa esercitare delle pressioni occulte sul Congresso.

Non può dirsi lo stesso per quanto attiene al caso italiano.

Da vario tempo i tentativi di disciplina legislativa del lobbying sfioriscono come certi fiori in inverno man mano che evolvono le legislature. Attualmente, su iniziativa del presidente della Commissione Affari Costituzionali della Camera, è in corso un’istruttoria pre-legislativa ai fini dell’assunzione finalmente (sono troppi anni che, però ricorre questo “finalmente”) una disciplina del lobbying.

Il problema, in Italia, è ancora più aggravato dal fatto che, per un verso, non esiste una disciplina legislativa, per altro verso esiste una fattispecie di reato, malamente configurata una dozzina di anni fa, come il “traffico di influenze illecite” (per il quale sono in corso modifiche normative). E, in certi casi, tanto più per il modo occhiuto e a volte accanito con cui operano certe procure non è facile individuare una linea di confine tra attività in qualche modo lecita di gruppi di pressione e traffico di influenze illecite.

In questo quadro, vige una sorta di italica legge della giungla. Già a suo tempo capitava di sapere che qualche figura di ex parlamentare esercitava funzioni di lobbista. D’altronde gli ex parlamentari sono gli unici, oltre ai parlamentari, che hanno diritto di “passeggiata” nel transatlantico di Montecitorio e nei corridoi attigui alle Commissioni parlamentari. Come capitava di incontrare qualche figura di apparente giornalista, iscritto all’albo e che sembrava esercitasse tale funzione, nel quale però si annidava una figura di lobbista. Fenomeni che capitano laddove, per una sorta di “ipocrisia istituzionale all’italiana” non giunge il dominio della legge.

A dire il vero, un piccolo simulacro di semi-disciplina esiste solo a Montecitorio, con la configurazione di un albo dei rappresentanti dei gruppi di pressione, varata a suo tempo per una lodevole ma necessariamente parziale iniziativa dell’allora presidente del Comitato etico della Camera Pino Pisicchio. Eppure, tanto più in una condizione in cui i partiti sono organizzazioni molto ristrette e molto gassose, e quindi non incidono più di tanto direttamente sull’attività di rappresentanza degli interessi politici, la previsione di una disciplina dell’attività dei gruppi di interesse e dei gruppi di pressione sarebbe ancor più necessaria.

Soprattutto in un momento storico di profonde trasformazioni del nostro modello economico e giuridico e del sistema “tradizionale” partitico, quale espressione del metodo democratico di determinazione della politica nazionale (secondo il dettato dell’art. 49 Cost). Crisi partitica che ha prodotto inevitabilmente una trasformazione della rappresentanza politica tradizionalmente intesa, aprendo necessariamente la strada a diverse forme di strumenti di veicolazione degli interessi dei consociati, quali corollari di precisi principi fondamentali costituzionalmente riconosciuti (tra cui la sovranità popolare, secondo il dettato dell’art. 1 Cost.; il principio di eguaglianza sostanziale, secondo il dettato dell’art. 3 Cost., e il principio pluralista).
Un’attività di cui si può individuare anche un chiaro fondamento costituzionale, perché è lecito poter disporre di un legislatore sempre più informato, e che al legislatore le informazioni possano giungere anche dai gruppi di pressione e dalle rappresentanze di interessi (un po’ come accade per il modello americano).

Del resto, anche nel panorama comparato si è da tempo avvertita l’esigenza di una regolamentazione in tema di attività di lobbying. Basti pensare alla legislazione adottata in Francia, in Germania, nei Paesi baltici, in Ungheria e in Polonia. Indicativo, però, è che sia stato anche lo stesso “legislatore” europeo ad occuparsi del tema della rappresentanza di interessi sin dal 2008, attraverso l’istituzione da parte della Commissione europea di un registro della rappresentanza di interessi, cui ha fatto seguito uno strumento adottato da Commissione e Parlamento europeo nel 2011: il Registro per la trasparenza, attualmente disciplinato da un Accordo istituzionale del 2014.

Le indagini sul come e perché sin qui in Italia non si è attuata una seria disciplina del lobbying sono state, e sono, tante, anche in questa fase ad opera della Commissione Affari Costituzionali della Camera. È giunto il momento di passare all’azione, per giungere ad una disciplina che possa concernere non solo l’attività di lobbying nei confronti delle Camere, ma anche quella nei confronti del governo, delle Autorità di regolazione di altri soggetti istituzionali.

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