Ancora una volta l’Inghilterra si è tirata indietro di fronte alla proposta franco-tedesca e italiana di giungere ad un accordo per la revisione dei Trattati europei, convenendo entro il prossimo marzo 2012 di modificare in senso più restrittivo le norme riguardanti la gestione del bilancio degli Stati membri dell’Unione.
Se guardando alla storia anche più recente non stupisce la decisione antieuropeista di Uk, essa appare però, rispetto al passato, meno motivata. A breve termine chiamarsi fuori dalla Ue, può essere una decisione condivisa dalla City. Questa infatti ha sempre difeso la sua indipendenza da interferenze regolamentari esterne, e poiché uno dei punti in discussione tra i governi europei è di introdurre con la riforma dei Trattati più controlli sulle transazioni finanziarie, nonché una tassa su di esse, la posizione assunta dal premier Cameron appare in linea con questa tradizione. La decisione di Cameron per quanto prevedibile desta però non poche perplessità, sia perché è stata presa in una fase di forte stress dei mercati, sempre più integrati, sia perché non è detto che le conseguenze negative che potrebbero derivarne, non toccheranno anche la City. Non va infatti sottovalutato il fatto che l’Inghilterra, salvo ripensamenti dell’ultima ora, non parteciperà da qui a marzo prossimo alle riunioni per la nuova governance europea dei conti pubblici e dei mercati finanziari. Inoltre l’isolamento politico che l’accompagna (sola contro 26) ha al tempo stesso una ulteriore ricaduta negativa, e cioè la sua esclusione da decisioni future che i 26 potrebbero prendere per il rilancio della crescita. Vale a dire che poiché l’economia inglese non è fatta solo di finanza, per quanto importante essa sia, c’è da chiedersi al di là dell’immediato quanto le pressioni della lobby della City costeranno al Paese.
È facile prevedere che al centro delle discussioni nei prossimi mesi tra Sarkozy, Merkel e Monti, vi saranno i temi della competitività, produttività, investimenti, come stimolarli e agevolarli, come finanziarli, ed è difficile pensare che starne fuori sia utile per l’Inghilterra.
La finanza assolve al suo ruolo se riesce a mantenere la fiducia degli investitori: questo ci dice la storia finanziaria internazionale. Per questa ragione per i governanti e per i responsabili delle sorti di un Paese, la visione a breve non sempre è buona consigliera. Se si guarda più a fondo sulle tendenze odierne dei mercati finanziari e dell’economia mondiale, non può sfuggire ad alcuno la forte preoccupazione del governo degli Stati Uniti di fronte al rallentamento della crescita mondiale, in qualche caso recessivo, che di certo si aggraverebbe nel caso di un crak dell’euro. Poiché nel 2012 ci saranno le elezioni presidenziali negli Usa, si può facilmente immaginare in quali condizioni esse si svolgerebbero di fronte a una catastrofe della economia americana ed europea. L’economia atlantica (Usa+Ue) è infatti la più grande del mondo per quantità del prodotto interno lordo (44% del Pil mondiale) e per qualità. Le due aree atlantiche si scambiano più del 50% del loro commercio internazionale, e ci vuole poco a immaginare cosa accadrebbe nel caso ci fosse il fallimento della moneta europea. Il ritorno alle monete nazionali comporterebbe inflazione (a quante cifre?) e tassi di cambio in picchiata, specie per le nuove monete dei Paesi a più alto debito, che di certo non favorirebbe la ripresa mondiale e americana con un dollaro supervalutato. In una ricerca da poco pubblicata da Ubs, (Global economic perspectives, euro break up – the consequences, settembre 2011) si evidenziano i costi drammatici della caduta dell’euro per i Paesi più piccoli, quantificabili in 40-50% del Gdp e in 20-25% del Gdp per i Paesi più grandi come la Germania, Una prospettiva da incubo per l’Europa che precipiterebbe in un passato di povertà e di scontro politico e sociale, da cui di certo non sarebbe immune nemmeno Inghilterra.
In conclusione la decisione inglese rischia di creare un vulnus negli equilibri della economia atlantica in un momento in cui ci sarebbe bisogno di maggiore coesione per confrontarsi con la Cina e con gli altri Paesi del Pacifico. L’Inghilterra ha sempre mal sopportato l’idea che l’Unione europea avesse come obiettivo finale di trasformarsi in uno Stato federale. Forse un simile atteggiamento aveva qualche giustificazione in passato quando Stati ed economie erano più chiusi e la tecnologia non aveva ancora trasformato il nostro modo di vivere. Ma oggi continuare su questa strada appare una scelta miope. Se si guarda al futuro, la competizione internazionale tra Stati sempre più sarà destinata a evolvere in competizione tra grandi aree economiche, di cui l’Europa è una di queste, insieme agli Stati Uniti. Da questo punto di vista l’isolamento inglese non trova giustificazione alcuna, neppure nelle paure della City che sempre più subirà la concorrenza delle Borse americane e cinesi, sostenute entrambe da forti economie, quanto più l’indebolimento economico dell’Europa continentale sarà forte. Se l’Europa non cresce neanche il mercato di Londra cresce. Neppure se si guarda al futuro delle monete, si capisce la decisione inglese. Dollaro e yuan continueranno a dominare in misura crescente la scena degli scambi internazionali, a maggior ragione se cadrà l’euro, mentre la sterlina si vedrà spinta a rinchiudersi in un enclave sempre più piccolo e più provinciale.
Volendo tirare le somme di queste rapide riflessioni, si può dire che mentre ha senso l’ostilità all’euro da parte di alcuni ambienti di Wall Street che lo vorrebbero vedere svanire a favore del dollaro, non si capisce il ragionamento del governo inglese e del premier Cameron, a meno che l’Inghilerra non desideri diventare una nuova stella della bandiera americana. L’Inghilterra ha svolto fino ad ora un ruolo di collegamento importante tra le due sponde dell’Atlantico, ha portato alla Unione Europea la sua tradizione liberale e di mercato. Rinunciarvi, significa fare un pessimo servizio oltre che a se stessa, anche al futuro dell’Unione, spingendola verso forme più germano-centriche di controllo dell’economia continentale. Tenuto conto di tutto ciò, c’è da riproporsi la domanda: cui prodest la decisione di Cameron?