Gli attentati del 7 ottobre hanno risvegliato negli ebrei di tutto il mondo una forte riscoperta dell’identità ebraica. È la reazione ad Amalek e la più grande risorsa del nostro popolo, questa capacità di rinascere sempre, riunirsi e andare avanti. Senza mai dimenticare. Pubblichiamo un estratto del volume “Il nemico ideale” di Nathania Zevi, edito da Rai Libri
Non ho mai avuto l’ambizione di cristallizzare l’antisemitismo di oggi in una fotografia e sapevo in partenza, avvicinandomi alla materia, che l’immagine che ne sarebbe uscita sarebbe stata necessariamente mossa, smarginata. Speravo di poter restituire, però, anche tramite la mia esperienza personale, quantomeno un’impressione di questo fenomeno, di cui spesso si tende a dimenticarsi. Non potevo certo immaginare che la guerra avrebbe fatto incursione nelle nostre vite, portandomi a mettere in discussione molte cose, a cominciare dagli stessi dati su cui il mio lavoro in parte si imperniava: tutto è cambiato a ottobre 2023 e anche i numeri dell’antisemitismo, immaginiamo, saranno molto differenti rispetto a quelli degli anni passati. Diversi e sempre meno incoraggianti.
Questo smottamento improvviso mi ha costretta anche a spostare il punto di vista, con una piccola inversione di marcia. Avevo passato un sacco di tempo a chiedermi in che modo gli ebrei fossero sempre stati considerati il nemico ideale, ma mi sfuggiva una domanda speculare: chi è il nostro nemico?
Nella Torah il nemico archetipico del popolo ebraico si chiama Amalek, identità collettiva per il gruppo di predoni che, mentre gli israeliti scappavano dall’Egitto, li attaccò nel momento di massima fragilità, nomadi nel deserto, disperati, senza più un luogo da chiamare casa. Dallo scontro gli ebrei uscirono feriti ma vincitori e più uniti di prima. Nonostante la paura e lo sconforto, si ricompattarono. È un insegnamento che si sarebbe rivelato utile molte volte, nostro malgrado: «Ricordati di ciò che ti fece Amalek mentre eri in viaggio, quando sei uscito dall’Egitto. Come ti assalì per strada, e colpì tutti coloro che, affranti, erano rimasti indietro, mentre tu eri stanco e sfinito, e non temette Dio. E quando il Signore tuo Dio ti avrà dato tregua da tutti i tuoi nemici, nella terra che sta per darti in eredità perché tu ne prenda possesso, cancellerai la memoria di Amalek da sotto il cielo, non dimenticare!» leggiamo nella Torah.
Ho ripensato molto a questo passaggio negli ultimi tempi, a quante volte può ripetersi la storia e a che cosa impariamo da questi eterni ritorni. Sicuramente a non dimenticare tutti gli Amalek che abbiamo incontrato, non ultimo il terrorismo di Hamas. Ma come si cancella dalla memoria qualcosa che ci è proibito dimenticare? E cosa sarà della memoria di questo 7 ottobre 2023? Come è evidente, ho ancora molti interrogativi e poche risposte, ma ci sono alcune cose che posso quantomeno augurarmi.
Posso sperare che quello di Hamas resti un antisemitismo non istituzionalizzato, che continui ad assomigliare a un male circoscritto, che non dilaghi e non si radichi nella società come fu per il nazismo. Non sovrapponiamo un gruppo terroristico a chi ha sistematicamente perpetrato uno sterminio. Anche per questo dobbiamo continuare a curarci del racconto della Shoah, della sua irripetibile specificità, e dell’evoluzione di cui il Giorno della Memoria forse necessita. Lo abbiamo già detto, ma ha senso ripeterlo: se questi sono i risultati di anni e anni di celebrazioni e promozione attiva del ricordo forse qualcosa non ha funzionato o non sta più funzionando.
Il secondo augurio è più che altro un’osservazione, perché sta già succedendo. Gli attentati del 7 ottobre hanno risvegliato negli ebrei di tutto il mondo una forte riscoperta dell’identità ebraica. È la reazione ad Amalek e la più grande risorsa del nostro popolo, questa capacità di rinascere sempre, riunirsi e andare avanti. Senza mai dimenticare.