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Lehman, no grazie. Così gli Usa hanno superato la tempesta dei tassi. Report Oxford Economics

​All’indomani del fallimento di Svb e First Republic, in molti temevano un effetto domino sul sistema bancario e finanziario americano, sotto i colpi della Fed. Ma le cose sono andate diversamente e le insolvenze sono rimaste ai minimi. In passato è andata spesso peggio

C’è stato un momento, più o meno al principio dell’estate scorsa, in cui gli Stati Uniti hanno rivisto per un momento bussare alla loro porta i fantasmi di Lehman Brothers. Erano i tempi dell’implosione di due istituti di media taglia, non troppo grandi ma nemmeno troppo piccoli, al secolo Svb e First Republic. Banche di territorio, profondamente legate all’economia della California, tecnologica in primis (la seconda fu poi riacciuffata per i capelli da Jp Morgan), che non ressero all’urto dei tassi, rialzati a ritmi forsennati dalla Federal Reserve, all’indomani della pandemia e della prima fase della guerra scatenata dalla Russia contro l’Ucraina.

Bastò poco per chiedersi se parte del sistema bancario americano potesse seguire il destino delle due banche. Non era certo un mistero che non pochi istituti di credito avessero portafogli profondamente esposti all’andamento dei tassi. Sette mesi dopo e con un costo del denaro oggi al 5,50%, le cose sono andate diversamente. Lo hanno potuto tranquillamente scrivere gli economisti di Oxford Economics in un apposito report dedicato alla scampata ondata di insolvenze post rialzo dei tassi. Il messaggio, non senza sorpresa degli stessi esperti, è questo: la finanza e il credito a stelle e strisce sono sopravvissuti a una restrizione monetaria repentina e violenta. Il che è un buon certificato di sana e robusta costituzione per l’economia americana.

“Sorprendentemente, il ciclo di rialzo dei tassi negli Stati Uniti non è stato accompagnato da un’impennata delle difficoltà finanziarie. Ciò riflette in parte l’impatto ritardato della stretta monetaria, che ha portato alcuni commentatori a sostenere che gli indicatori di stress, come i tassi di insolvenza delle imprese, aumenteranno quest’anno”, scrive Oxford Economics. “Secondo i nostri modelli, tuttavia, è improbabile che ciò accada, a meno che il quadro macroeconomico non subisca un drastico peggioramento. Nonostante il forte aumento storico dei tassi d’interesse statunitensi, l’incremento del tasso di insolvenza speculativa negli Stati Uniti è stato finora contenuto. L’attuale tasso del 4% è molto inferiore ai picchi del 10%-12% registrati in alcuni cicli di default precedenti”.

Tradotto, lo spauracchio di un default a catena di piccoli e medi istituti, non c’è stato. “Una lieve recessione negli Usa potrebbe portare il tasso di insolvenza al 5,8%. Ma anche un atterraggio duro, con un picco del 5% di calo annuo della produzione industriale, secondo la nostra modellizzazione farebbe salire il tasso di insolvenza solo al 7% circa. Su questa base, la probabilità che il tasso di default raggiunga nuovamente il 10% come in alcuni cicli precedenti appare bassa”.

E il futuro? Da questo momento in poi la strada dovrebbe essere in discesa. Nonostante un’inflazione che ha rialzato la testa a dicembre (3,4%), quest’anno la Fed comincerà a tagliare i tassi, con le prime sforbiciate già dalla prossima primavere. Ma non tutti ne sono convinti. Howard Lutnick, ceo di Cantor Fitzgerald, intervistato da Bloomberg Television al World Economic Forum di Davos, in Svizzera e tra le voci più autorevoli del sistema finanziario statunitense, ha dei dubbi. “La Federal Reserve ha un compito difficile, ma è fondamentale trovare un equilibrio che non freni la crescita economica, pur continuando a tenere a bada l’inflazione, che non è ancora scomparsa, non è ancora un ricordo del passato. Dobbiamo aspettarci tassi più alti per più tempo. È più una questione di adattamento alle circostanze attuali”.

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