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La protesta dei trattori vista dall’Appennino. L’intervento del commissario Castelli

Di Guido Castelli

Nella protesta di questi giorni degli agricoltori europei, dall’osservatorio delle aree colpite dalla sequenza sismica del 2016-2017 mi pare di vedere in filigrana una delle tante contraddizioni che hanno caratterizzato molte politiche europee (e italiane) degli ultimi decenni. L’intervento di Guido Castelli, commissario straordinario Sisma 2016

Da un anno a questa parte mi sono abituato a guardare la realtà dal microcosmo del cratere del sisma 2016-2017. Un cosmo che poi non è così “micro”, trattandosi di una superficie di 8000 chilometri quadrati nel cuore dell’Italia centrale. In più occasioni ho intravisto nei processi di ricostruzione e di rigenerazione che stiamo realizzando, una sorta di laboratorio involontario, ma utile a comprendere molte delle criticità in atto.

Anche nella protesta di questi giorni degli agricoltori europei, dall’osservatorio delle aree colpite dalla sequenza sismica del 2016-2017, mi pare di vedere in filigrana una delle tante contraddizioni che hanno caratterizzato molte politiche europee (e italiane) degli ultimi decenni.

Nell’Italia centrale e nelle aree del cratere in particolare, le attività agro-silvo-pastorali hanno caratterizzato per secoli i luoghi, le economie e gli insediamenti; il progressivo abbandono dei terreni, al quale hanno contribuito molte delle difficoltà denunciate in questi giorni dagli agricoltori, rischia di compromettere gli sforzi per la cura delle ferite causate dai sismi del 2016-2017.

Oggi il cratere sisma 2016 ha meno della metà di aree coltivate di quelle del secolo scorso, mentre il bosco non gestito copre quasi i tre quarti di tutto il territorio. Una situazione di abbandono sconosciuta a memoria d’uomo da queste parti, che ora, a causa dei cambiamenti climatici, rappresenta una minaccia anche per le aree urbanizzate della costa.

Il problema è di carattere nazionale. Dal 1990 al 2010 la Superficie Agricola Utilizzata (SAU) è calata, in Italia, di circa 2.200.000 ettari. Ciò significa che due milioni e duecentomila ettari di terra non sono più occupati da pascoli, orti, frutteti, prati permanenti, boschi destinati alla silvicoltura. Negli anni successivi, l’andamento non si è invertito né ha rallentato: dal 2010 al 2016 il calo registrato è stato di ulteriori 726.000 ettari. Questi numeri sono forniti dall’Istituto Nazionale di Economia Agraria.

L’agricoltura (e la silvicoltura) è da sempre l’attività primaria di relazione produttiva tra Uomo e Natura. Il presidio del territorio, il primo baluardo contro la fragilità (soprattutto idrogeologica), è sempre di natura agricola. Quando l’agricoltura arretra, si abbassano le difese, prima ancora che la produzione di risorse. Questo è vero sempre, ma assume qualche peculiarità ulteriore per le aree interne, dove l’orografia diventa caratteristica, come nell’area del cratere sismico sull’Appennino centrale.

Come mi è accaduto di testimoniare alla Cop28 di Dubai, la best practice avviata dai processi di ricostruzione sostenibile nelle aree del sisma 2016-2017 ha messo in evidenza l’emergenza demografica e lo spopolamento. Anche nei problemi sollevati dagli agricoltori vedo molta parte delle contraddizioni scatenate dall’abbandono del territorio da parte del presidio umano. Lo spopolamento ha prodotto un abbandono che è premessa di molti disastri idrogeologici – effetto del cambiamento del clima, certamente, ma anche di un mancato presidio di aree del Paese che se abbandonate a sé stesse diventano un problema per tutte quelli limitrofe: le alluvioni a valle sono frutto dell’abbandono dei monti, in questo caso dell’Appennino centrale. Lo stesso abbandono che rischia di depauperare la biodiversità che secoli di attività agro-silvo-pastorale hanno prodotto e che a noi spetta l’onere di mantenere.

Esempi di paesaggi creati dall’uomo nell’Appennino centrale si riferiscono ad esempio ai castagneti del Gran Sasso, da cui deriva la produzione del marrone di Valle Castellana la quale implica una manutenzione del castagneto e una cura del soprassuolo costante e attenta. Gli interventi silvicolturali mantengono il bosco in equilibrio stabile, sostituendo le piante morte con piante nuove, potando quelle danneggiate o malate, evitando in questo modo il ritorno di specie endemiche climax (come le querce, rovere, roverella, ecc). La corretta gestione del bosco, oltre alla raccolta dei frutti permette anche l’asportazione di massa legnosa, in alcuni casi anche di qualità; di utilizzare il bosco a scopi turistici, didattici e ricreativi; di mantenere l’assetto idrogeologico, la stabilità del suolo e prevenire gli incendi.

A tutto ciò si aggiungano anche le coltivazioni originali e sintomo di quella preziosa biodiversità di cui abbiamo parlato: la solina, una varietà di grano tenero coltivata all’interno del parco della Maiella; la lenticchia di Castelluccio di Norcia del Parco Monti Sibillini o il farro della Garfagnana nel Parco Appennino Tosco Emiliano. O la mela rosa della val d’Aso e i marroni di Acquasanta Terme.

Con il programma NextAppennino si sta cercando di assicurare maggiore redditività a chi vive dei frutti della terra attraverso 34 milioni di investimenti per la misura sull’economia circolare che si propone di invertire il processo di abbandono delle aree del cratere.

Nell’Italia centrale c’è il problema opposto della richiesta di mettere i terreni a riposo: qui i terreni che “riposano” sono purtroppo la maggioranza e andrebbero di nuovo coltivati, come andrebbero valorizzati meglio e con nuove prospettive gli straordinari prodotti tipici locali, per non parlare dello straordinario patrimonio boschivo abbandonato che potrebbe attivare nuove economie in linea con la sostenibilità e il mantenimento della biodiversità.

Anche per questo il “microcosmo” del cratere si conferma un laboratorio involontario di sperimentazione, dove purtroppo molte politiche del passato dimostrano la loro inadeguatezza. Lo abbiamo detto a proposito della transizione ecologica, che, come disse la premier Giorgia Meloni, “non doveva essere ideologica e che non dovevamo scambiare la sostenibilità ambientale con quella economica e sociale, e oggi cominciamo a vedere i risultati”.

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