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Taiwan-Indo Pacifico, gli effetti della vittoria di Lai (anche sull’Italia). La versione di Insisa

Di Aurelio Insisa

Le riflessioni nel corso dell’audizione presso il Comitato Indo Pacifico della Commissione Esteri della Camera del responsabile di ricerca per l’Asia nell’ambito del programma Attori Globali presso l’Istituto Affari Internazionali. Le implicazioni della vittoria di William Lai sugli equilibri della regione

In linea con il programma dell’indagine conoscitiva del Comitato, è mia intenzione fornire una lettura dei più recenti sviluppi occorsi a Taiwan, del loro impatto sull’Indo-Pacifico, e del loro significato per gli interessi italiani nella regione, alla luce delle elezioni presidenziali e legislative che si sono svolte sull’isola lo scorso 13 gennaio. Le elezioni presidenziali hanno visto la vittoria del candidato del Partito Democratico Progressista (Pdp) e già Vicepresidente, William Lai Ching-te. Lai succederà questo maggio al Presidente uscente Tsai Ing-wen, dello stesso partito. Nelle elezioni legislative il Pdp ha tuttavia perso dopo otto anni la maggioranza nel parlamento unicamerale, lo Yuan Legislativo, il quale presenta adesso una maggioranza relativa del Kuomintang, il Partito Nazionalista Cinese.

Comincio con una breve sintesi del contesto politico in cui queste elezioni si sono svolte. A seguito del ritorno a potere del PDP nel 2016 dopo 8 anni, Pechino chiese alla Presidente Tsai Ing-wen di riconoscere una formulazione delle relazioni tra le due parti definitaConsenso del 1992”. Accettare questa formulazione avrebbe comportato il riconoscimento di Taiwan come parte inalienabile della Cina. L’accettazione del consenso, inoltre, implica l’eventuale assorbimento dell’isola nel quadro “un paese, due sistemi”, sulla falsariga della retrocessione di Hong Kong nel 1997. Questa richiesta cinese è stata, e rimane, inaccettabile per la maggioranza del popolo taiwanese, e in particolare per gli elettori del Pdp. In risposta al rifiuto dell’amministrazione Tsai, Pechino ha quindi iniziato una campagna di pressione, tutt’ora in corso, dal carattere multidimensionale: pressione economica, diplomatica, politica, e militare in particolare con operazioni nella zona grigia” e altre minacce ibride.

Parallelo al deterioramento delle relazioni con Pechino è stato l’approfondirsi delle relazioni non-ufficiali tra Taipei e Washington, iniziato con l’amministrazione Trump e continuato durante l’amministrazione Biden. Le tensioni dell’agosto 2022, periodo nel quale l’Esercito Popolare di Liberazione (Epl) ha effettuato prove di un blocco navale dell’isola e lanciato missili balistici al di sopra suo spazio aerea a seguito della visita dell’allora Speaker della Camera dei Rappresentati degli Stati Uniti Nancy Pelosi, dimostrano la rinnovata centralità di Taiwan nella relazione bilaterale più importante nella politica internazionale contemporanea.

Le azioni e le parole di Pechino verso Taiwan, e ancor di più la continua modernizzazione e riorganizzazione delle forze armate cinesi in questi ultimi anni, hanno quindi spinto numerosi osservatori a ipotizzare un’azione coercitiva da parte cinese allo scopo di unificare l’isola nel breve-medio termine. Una data in particolare è emersa negli ultimi anni, a seguito delle dichiarazioni di ufficiali delle forze armate e funzionari del governo americano a partire dal 2021. Questa data è il 2027, l’anno del centesimo anniversario della fondazione dell’Epl. Tuttavia, a seguito dell’attuale, timida détente tra Stati Uniti e Cina emersa nella seconda metà dello scorso anno, le voci da Washington hanno smorzato l’allarmismo su un’azione cinese nel breve periodo.

Cosa comporta quindi il risultato elettorale dello scorso gennaio per l’Indo Pacifico e per il nostro paese? Basandomi su un’analisi della campagna elettorale e della situazione politica a livello domestico e regionale, sono dell’opinione che la Presidenza Lai, nonostante sostanziali differenze nel profilo politico e personale tra Lai e Tsai, opererà in continuità con quella del suo predecessore. Taipei continuerà ad enfatizzare il suo ruolo di bastione liberal-democratico contro le autocrazie, cercherà di approfondire ulteriormente i propri rapporti non soltanto con partner consolidati quali gli Stati Uniti e il Giappone, ma anche con l’Unione Europea e i suoi paesi membri, Italia compresa. La presidenza Lai non mancherà di ricordare a questi partner la centralità di Taiwan nelle catene globali del valore, e in particolare nel settore dei semiconduttori di alta fascia (i cosiddetti logic chips sotto i 10nm), nel contesto dell’attenzione americana ed europea per politiche industriali di reshoring e friendshoring.

La presidenza Lai continuerà ad esplorare le possibilità (al momento minime) di accedere ad accordi di libero scambio sia con l’Ue che con i suoi vicini regionali all’interno del Cpttp. Non vi sono inoltre al momento elementi che facciano presagire delle mosse particolarmente provocatorie da parte di Taipei sulla questione dell’indipendenza – un termine che ha un significato ben preciso in questo contesto: cessazione della Repubblica di Cina e stabilimento di una “Repubblica di Taiwan”, un casus belli per la Cina. Allo stesso tempo la fragile détente, se non tregua tattica, tra Pechino e Washington dovrebbe continuare almeno fino alle elezioni americane.

Due casi saranno quindi da tenere in considerazione. Il primo è la risposta cinese alla vittoria di Lai. È lecito nel breve termine aspettarsi un’ulteriore intensificazione delle operazioni militari nella zona grigia da parte cinese in quella che Taiwan definisce come la propria Zona di Identificazione di difesa aerea e nell’acque vicino all’isola, in particolare sullo Stretto di Taiwan. Il secondo è il possibile ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca. Negli scorsi mesi Trump non ha garantito un impegno degli Stati Uniti nel difendere di Taiwan in caso di azione coercitiva cinese e ha criticato l’isola per la delocalizzazione dell’industria dei semiconduttori americana (“our chip business). Una seconda presidenza Trump rischia quindi di sgretolare le capacità taiwanesi di deterrenza e di aprire la strada ad un colpo di mano cinese. In questo caso, un tentativo di blocco navale dell’isola da parte cinese per imporre l’unificazione entro la fine del mandato di Lai, in particolare con un occhio alle prossime elezioni del gennaio 2028, diventerebbe probabile.

Ciò, mi riporta alla questione del 2027 come data campale. Credo che il 2027 sia da intendersi come scadenza che la leadership cinese abbia posto all’Epl per trovarsi pronto ed essere capace di vincere una guerra contro gli Stati Uniti per Taiwan, invece che un effettivo termine di un countdown verso un conflitto. Rimango fermamente convinto che la Cina tenterebbe di imporre l’unificazione se e quando l’occasione opportuna dovesse emergere, ad esempio in caso di una vittoria di Trump.

Cosa può e deve fare l’Italia quindi? In primo luogo, pianificare sia per il breve che per il medio termine. Per il breve termine l’Italia dovrebbe continuare a contribuire, con le sue capacità, a mantenere la stabilità nella regione, in altre parole a contribuire alla stabilità nello Stretto di Taiwan in maniera indiretta attraverso una presenza in Asia Sudorientale e orientale. Da questo punto di vista è da apprezzare la prossima presenza della Cavour, della Vespucci e dei nostri F-35 nella regione, come annunciato ieri dalla Presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Ritengo tuttavia altamente problematico per il nostro paese un transito nello Stretto di Taiwan. Credo sia un’opinione condivisa dal nostro governo e dalla nostra diplomazia.

L’Italia può anche dare un importante contributo quest’anno con la presidenza del G7. L’aspirazione del governo nel riorientare l’agenda del G7 dall’Indo-Pacifico al Mediterraneo Allargato, anche alla luce del conflitto di Gaza e della crisi nel Mar Rosso, è legittima e comprensibile. Credo tuttavia che sia fondamentale recepire le opinioni di Washington e Tokyo, ma anche di un importante partner del nostro paese quale la Repubblica di Corea. Credo sia importante che il prossimo comunicato dei leader e dei ministri degli affari esteri G7 siano in linea con quelli di Carbis Bay, Schloss Ermau, e Hiroshima nel riaffermare la necessità di non alterare manu militari lo status quo sullo Stretto. Sarebbe inoltre opportuno inviare a Taiwan una delegazione parlamentare con un profilo esplicitamente istituzionale, in linea con il modus operandi di Francia e Germania, dopo la visita“personale” dei senatori Gian Marco Centinao e Elena Murelli nella scorsa estate.

Infine, è altrettanto necessario continuare a pianificare sia per il worst case scenario, un conflitto a larga scala tra Cina e Stati Uniti, che per un assorbimento coercitivo dell’isola a seguito del suo abbandono da parte di un’ipotetica seconda amministrazione Trump. Vista la centralità di Taiwan nelle catene globali del valore, questi potenziali sviluppi avranno un enorme impatto su un paese trasformatore quale l’Italia. In entrambi i casi gli esercizi di pianificazione potranno solo parzialmente mitigare l’impatto degli eventuali sconvolgimenti, ma la sorpresa della guerra in Ucraina ci ricorda la necessità di farci trovare pronti il più possibile.

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