Il proclama di Sanremo non vi fa cenno esplicitamente, ma si percepisce la voglia di alzare barriere contro i prodotti esteri. Il rischio di reazioni a catena assai pericolose per la convivenza globale
Prima, i social. Dopo, Sanremo. Diciamolo: le vere istituzioni italiane, e forse anche europee, non sono più gli organismi previsti dalla Costituzione formale, ma sono le nuove forme della comunicazione, basate sul matrimonio di interesse tra l’inarrestabile social-crazia della Rete e gli eventi-clou della tradizionale videocrazia. Senza i social, la protesta degli agricoltori non si sarebbe spalmata sull’intero continente. Senza Sanremo, la marcia dei trattori non avrebbe ottenuto la definitiva consacrazione nazional-popolare. E di questi tempi la marcia su Sanremo vale e pesa molto di più di una marcia su Roma. Tanto è vero che il governo ha cercato di rasserenare gli animi, venendo parzialmente incontro alle richieste dei manifestanti.
Il comunicato letto al Festival non aggiunge nulla di nuovo ai pacchetti rivendicativi illustrati finora. Semmai si avverte lo sforzo di mediazione tra le diverse posizioni presenti nel mondo agricolo, non foss’altro perché il settore primario non è un monoblocco assediato dagli stessi problemi, a iniziare dalle differenze tra Nord e Sud; dalle divaricazioni di interessi tra la grande e la piccola proprietà dei campi, tra imprenditori innovatori e colleghi conservatori; dall’atteggiamento nei confronti delle politiche green. Non solo. La ribellione delle nuove variegate sigle agricole più che contro il governo nazionale e la stessa Europa sembra aver preso di mira innanzitutto la linea delle storiche organizzazioni agricoli, in primis della Coldiretti, accusate più o meno apertamente di debolezza, di connivenza, di complicità con i decisori di Bruxelles e Roma. Insomma.
Un fantasma, però, sembra unire, le denominazioni vecchie e nuove che danno rappresentanza al mondo agricolo: il protezionismo. Un fantasma riabilitato ad ogni occasione, nonostante il freno allo sviluppo del Belpaese, e soprattutto del Mezzogiorno, da lui attivato in numerose circostanze. L’idea di salvare l’agricoltura contrastando le importazioni dall’estero è dura a morire. Eppure se l’Italia è economicamente spaccata in due, la causa principale va indicata proprio nell’introduzione dei dazi doganali nel 1887. Un provvedimento sciagurato che servì, all’inizio, a dare sollievo alla nascente industria del Nord, ma che, presto, si rivelerà esiziale per l’ammodernamento della proprietà agraria del Sud, perché allo stop italiano ai prodotti stranieri seguì lo stop dei Paesi stranieri ai prodotti italiani. Il Mezzogiorno d’Italia che aveva cominciato ad esportare il meglio della sua ortofrutta, e che stava costruendo moderni stabilimenti di trasformazione agroalimentare, fu costretto alla resa, a ripiegare cioè sulla secolare produzione estensiva, per la gioia dei latifondisti devoti alla rendita e per l’afflizione degli imprenditori più intraprendenti innamorati delle colture intensive. Il fascismo, con la preistorica e autolesionistica ideologia basata sul tandem autarchia-ruralità, darà il colpo di grazia all’obiettivo di perseguire produttività, redditività e modernità nel Meridione.
Alle corte. I guai dell’agricoltura italiana prescindono dall’Europa e dalla di lei burocrazia che, pure, non sono al di sopra di ogni sospetto. I guai dipendono innanzitutto dall’eccessiva frammentazione della proprietà agricola. Il che va di pari passo con quanto si verifica nel commercio, dove seguitano a chiudere l’attività migliaia e migliaia di piccoli esercizi. Il mercato, per riportare il detto maoista sulla rivoluzione, non è un pranzo di gala. O si accettano i suoi verdetti o si opta per la pianificazione dall’alto, con tutte le conseguenze che l’economia di comando di solito produce: merci introvabili, code interminabili davanti ai negozi, minore libertà per i consumatori, sottosviluppo.
Ecco il punto. L’economia di mercato, insegnano i sacri testi e lo dimostrano le contrattazioni quotidiane, ha senso solo se mira a soddisfare esigenze e bisogni dei consumatori. Viceversa. Un’economia di mercato in funzione dei produttori costituisce un clamoroso controsenso, una sconfessione plateale dei princìpi tramandatici dallo scozzese Adam Smith (1723-1790), per citare un nome per tutti. Spetta ai produttori, in concorrenza tra loro, offrire ai consumatori i prodotti più appetibili in relazione al binomio qualità-prezzo. Il boom economico dell’ultimo secolo è derivato dall’osservanza di questo criterio, celebrato dall’austriaco Joseph Schumpeter (1883-1950) con la definizione di “distruzione creativa”.
Delle due, l’una. O si continua, sia pure parzialmente (visto che i sussidi al settore agricolo non mancano), ad accettare la logica schumpeteriana o si opta per un’agricoltura completamente sovvenzionata ed eterodiretta dallo Stato o dall’Europa, con tutte le conseguenze in termini di arretratezza e di ingiustizia che questo testacoda regressivo comporterebbe.
Intendiamoci. La questione è assai complessa. Chiama in causa la compatibilità (delle richieste avanzate dagli agricoltori) con i piani dell’agenda verde protesi a contrastare il cambiamento climatico. Il pressing per il bonus sul gasolio collide con la piattaforma ecologista che invoca lo stop alle energie fossili. Idem per il no alla carne sintetica, che gli ecologisti vorrebbero favorire per rendere meno impattanti i sistemi zootecnici tradizionali. Idem per la messa a riposo di aree agricole, che gli ecologisti richiedono per salvaguardare la biodiversità. Per non parlare dei diverbi sui pesticidi.
E però, sotto sotto, ripetiamo, s’avverte la presenza del fantasma di nome protezionismo. Un fantasma che non attrae, va sottolineato, le aziende innovative e competitive (non a caso restie a scendere in piazza). Un fantasma che, però, non si fa carico delle necessità e degli interessi dei consumatori e che a lungo andare si rivela letale anche per le necessità gli interessi di molti produttori. E ancora. Non è pensabile e tantomeno conveniente bloccare le importazioni dall’Africa, dall’Asia o dal Sudamerica, pena un ulteriore aumento dei flussi migratori verso l’Europa. Che vogliamo fare: da un lato varare il Piano Mattei per l’Africa e dall’altro fermare i suoi prodotti spediti in Italia e in Europa? Che poi i prodotti esteri da respingere e da processare in nome della tracciabilità igienica sarebbero solo quelli concorrenziali con i nostri, nessuno solleva obiezioni sull’import di banane o dell’intera frutta esotica non replicabile sui nostri terreni.
Conclusione. Attenti a non cadere nella trappola del fantasma protezionismo, dal momento che un protezionismo tira l’altro, e che a un virus sovranista si opporrà un altro virus sovranista. In una rincorsa continua, fino al baratro. Con tanti saluti alla cooperazione e alla crescita generali. E con nuovi rischi per la pace globale.