Difficile dire cosa può accadere dopo la sua morte, ma è un ulteriore elemento che si aggiunge alla mancata ammissione alle elezioni presidenziali di Boris Nadezhdin e al movimento delle donne dei cittadini mobilitati e inviati al fronte: un messaggio, forse, di terrore, che però potrebbe rendere evidente come un possibile cambiamento in Russia non sarà pacifico
Alexey Navalny è morto. La notizia proveniente dalla colonia penale n. 3 nel villaggio di Kharp, nel distretto autonomo di Yamal-Nenets, ha già fatto il giro del mondo nei suoi dettagli al momento fumosi: il leader politico sarebbe stato male durante l’ora d’aria, e i soccorsi nulla hanno potuto per salvargli la vita. Secondo Margarita Simonyan, direttrice di Russia Today, media di propaganda del Cremlino, a causare la morte di Navalny sarebbe stato un trombo, particolare non confermato dal Servizio federale penitenziario. Anche se fosse così, però, vi è da chiedersi se i 300 giorni e più trascorsi in cella di rigore per infrazioni di poco conto – come la giubba non abbottonata a dovere o una parolaccia di troppo – non abbiano influito sulle condizioni di salute di un uomo già provato dall’avvelenamento del 2020 e dalla carcerazione.
La traiettoria di Navalny nella Russia degli anni Dieci ha catalizzato, in un modo o nell’altro, una fascia di dissenso all’interno della società, soprattutto riuscendo ad intercettare i giovani e i giovanissimi, spesso nati e cresciuti nell’età putiniana: alle manifestazioni, spesso sfociate in arresti e processi, ci andavano persone che non erano del tutto d’accordo con la sua agenda politica, ma vedevano in esse la possibilità di esprimersi, di gridare la propria opposizione a quanto avveniva nel paese. La capacità di riuscire ad entrare in sintonia, anche grazie a un utilizzo molto attento dei social, con le nuove generazioni è stata la cifra del successo di Navalny anche rispetto a quegli oppositori diventati ininfluenti sia per scelte politiche che per l’emigrazione. E forse proprio il timore di poter ridurre la propria azione politica a mera testimonianza, senza alcuna influenza sui processi reali in corso nella Federazione Russa, a spingerlo a ritornare in patria dopo i lunghi mesi passati all’ospedale Charite di Berlino per curarsi e riprendersi dopo l’avvelenamento subito durante il suo viaggio in varie città della Siberia per consolidare la propria rete.
Probabilmente non aveva alcuna illusione su un suo arresto immediato, forse è stata una mossa errata dal punto di vista della possibilità di costruire una continuità politica, ma Navalny viene arrestato appena mette piede a Mosca, al controllo passaporti dell’aeroporto di Sheremetyevo, e da lì inizia la sua carcerazione, sempre affrontata con grande dignità e persino senso dell’umorismo. Trasferito nella colonia penale di Melekhovo, nella regione di Vladimir, e poi ancora più lontano, lì dove il ghiaccio e il gelo son parte della quotidianietà, a Kharp, Navalny non si è mai perso d’animo, è sempre riuscito a comunicare con l’esterno anche quando venivano arrestati i suoi avvocati, trasferito in un lungo viaggio verso l’Artico, mandato in cella di rigore.
Cosa può accadere dopo la sua morte, in un contesto di repressione totale, è difficile dirlo, ma è un ulteriore elemento che si aggiunge alla mancata ammissione alle elezioni presidenziali di Boris Nadezhdin e al movimento delle donne dei cittadini mobilitati e inviati al fronte: un messaggio, forse, di terrore, che però potrebbe rendere evidente come un possibile cambiamento in Russia non sarà pacifico.