Il punto cruciale è ripensare l’applicazione della concorrenza a livello europeo in sintonia con gli obiettivi prioritari della politica industriale. Politica da guidare e coordinare per la lontananza dalle politiche nazionali. L’analisi di Gloria Bartoli, economista e docente alla Luiss
Entrambe sono etichette di molteplici strategie profondamente differenti tra loro. Sappiamo che la concorrenza, limitando la rendita dell’innovatore, può ridurre l’incentivo ad innovare. Ma uno studio empirico su imprese britanniche negli anni 90 ha mostrato che concorrenza e produttività crescono insieme. La causa di questo fenomeno, che va contro le conclusioni dello stesso Schumpeter sulla distruzione creatrice, è che le imprese alla frontiera tecnologica reagiscono positivamente alle innovazioni a differenza dalle imprese più lontane dalla frontiera, meno produttive.
Anche gli studi recenti dell’Ocse, basati sui dati di milioni d’imprese, sulla produttività che deriva dall’innovazione, mostrano che le imprese alla frontiera tecnologica le famigerate Big Tech (Google, Apple…) continuano ad innovare malgrado l’enorme potere di mercato che già posseggono. Chi gestisce le grandi piattaforme digitali acquista e assorbe le startup più promettenti, non per bloccarne le innovazioni, come al tempo di Schumpeter, ma per utilizzarne le innovazioni e diffonderle sul mercato.
Messi di fronte alle innovazioni, differenti paesi possono accelerare la crescita o ristagnare a seconda della prevalenza di imprese alla frontiera o di imprese in ritardo. In altri termini, sono le grandi e grandissime imprese che sono capaci di utilizzare le innovazioni digitali, biomediche, etc… che producono o acquistano, aumentando la produttività, la crescita, gli standards di vita, magari aumentando le diseguaglianze, da ridurre con politiche di distribuzione del reddito e formazione. Si tratta delle stesse imprese che produrranno e utilizzeranno AI gen, la prossima rivoluzione industriale.
Le spese per ridurre le diseguaglianze create dalle politiche di digitalizzazione e per la transizione verde non possono venire vent’anni dopo, ma devono essere parte del disegno delle politiche. Gli Usa hanno pagato col populismo trumpiano la disattenzione alla deindustrializzazione dovuta al China shock. L’Ira di Biden non ripete l’errore: insieme ai sussidi e incentivi per le rinnovabili ha diminuito le spese e aumentato le entrate negli Stati o contee che avevano sofferto la deindustrializzazione precedente o potrebbero soffrire lo spostamento degli investimenti verso i veicoli elettrici.
Oltre a misure calmieratrici dei prezzi delle medicine. E ha introdotto una tassa minima alternativa del 15% sul reddito contabile per le società che dichiarano profitti superiori a $1 md.
Un paese di piccole imprese poco produttive, come il nostro, ha salari poveri e fa scappare i suoi giovani più qualificati. E non è detto che sia più concorrenziale, perché le piccole imprese sopravvivono grazie a rendite garantite dalla politica locale e nazionale. In più, una politica industriale di salvataggio delle imprese decotte -dai gianduiotti alla compagnia aerea di bandiera- non ha mai smesso di operare. Si rinnovano gli incentivi fiscali per le piccole imprese, non startup che nascono piccole e diventano grandi. Il risultato è che nella crescita della produttività l’Italia si batte per l’ultimo posto in Europa e il reddito pro-capite in Italia ristagna dalla metà degli anni 90.
Il diritto europeo della concorrenza deve aggiornarsi.
Nel settore digitale è emersa l’inadeguatezza di un paradigma basato sull’esame ex post delle condotte delle imprese: la tutela della concorrenza è diventata regolazione. Il Digital service act (Dma) vuole assicurare la contendibilità del mercato. D’altronde il Dma tende a limitare l’impatto sulla società per l’interferenza dei social media nelle istituzioni democratiche. Ed è interessante notare che questo punto è già stato introdotto in Italia dalla Corte Costituzionale. E sarà prevalente nell’ambito del Pnrr dove la riforma della concorrenza è validata dai risultati sulla produttività e crescita, quindi sul benessere dell’intera comunità. Ma ancora non ci siamo per quanto riguarda l’armonizzazione tra Ue e Usa della regolamentazione delle piattaforme di Big Tech e Big State (Cina).
Nella stessa prospettiva di competitività industriale coniugata alla sicurezza economica, l’Europa sta considerando la necessità di non bloccare i mergers di compagnie telefoniche, dal momento che la frammentazione corrente seppur ha favorito i consumatori, ha impedito l’investimento nelle infrastrutture del futuro.
Vedremo se i protezionismi nazionali, indice di una miopia che ormai sfiora la cecità, ostacoleranno la razionalizzazione delle telecomunicazioni, delle reti elettriche, l’armonizzazione dei materiali e softwares per la difesa, etc… Anche i sussidi diretti, che a livello nazionale sono proibiti come aiuti di Stato, sono divenuti ammissibili per i microprocessori, le reti elettriche di approvvigionamento per veicoli elettrici, (e forse anche gli incentivi sui veicoli elettrici come in Us), per i pannelli solari. Queste iniziative dovevano essere integrate nella piattaforma Strategic Technologies for Europe (Step) e in seguito con il Fondo per la Sovranità europea. Avrebbero avuto il compito di convogliare risorse finanziarie già stanziate fino a 160 md di euro verso nuovi investimenti in ricerca e innovazione sia per l’energia che per la difesa per ridurre la dipendenza dell’Unione da tecnologie strategiche importate da altri paesi.
Crisi, pandemia e guerre insieme all’accelerazione dei cambiamenti climatici hanno segnato la fine del lavoro di fioretto al quale eravamo abituati. Il continuo sostegno dello Stato cinese alle aziende esportatrici nei settori tecnologici di punta, ignorato così a lungo grazie alle potenzialità del mercato cinese per gli esportatori dei paesi avanzati, è diventato un rischio per l’ autonomia europea.
La dottrina di Xi Jinping del primato del partito comunista sulle imprese si è coniugata con la sua alleanza con Putin contro il mondo occidentale.
La possibile militarizzazione delle dipendenze tecnologiche dalla Cina -dalle reti mobili di telefonia alle batterie elettriche, pannelli solari e veicoli elettrici- mettono a rischio la nostra sovranità e autonomia ben più della dipendenza energetica da Putin. Occorre dunque la sciabola di una politica industriale finalizzata agli obiettivi prioritari dell’autonomia europea: tecnologia digitale, autonomia energetica e difesa in primo luogo.
Con quali finanziamenti? La necessità di usare tutte le politiche adatte al fine dell’autonomia strategica è stata ignorata al momento di finalizzare le nuove regole fiscali del Patto di stabilità e crescita. Un fondo per gli obiettivi prioritari europei non è stato creato. E STEP non è stato integrato nella revisione del bilancio per il prossimo anno né finanziato con le risorse dei fondi di coesione e altri fondi. Dovremo dunque servirci, per il momento, di politiche già disponibili sia a livello nazionale che europeo: Recovery and Resilience Facility fino al 2026 e i fondi della politica di coesione europea che possono affiancare grandi imprese competitive internazionalmente per invertire la delocalizzazione industriale e competere con i giganti tecnologici di Cina e Stati Uniti. Con l’appropriato coordinamento regionale delle forniture di beni e servizi, capaci di ridurre le disparità regionali.
Portare a compimento l’Unione Bancaria e l’Unione dei mercati di capitale sarebbe gran parte della soluzione. Infatti, l’Europa potrebbe permettersi sussidi industriali simili agli Usa se solo decidesse di farlo. I tassi d’interesse richiesti per i bonds Ngeu erano all’inizio uguali a quelli per i bonds del Mes, che sono garantiti da un ingente collaterale versato/impegnato dai Paesi membri. Mostrando il largo bacino di domanda potenziale di debito Eu.
L’immediato successo dei fondi raccolti come “risorse proprie” dalla Commissione per finanziare Ngeu ha resuscitato le speranze di chi attendeva un safe asset europeo da tempo. Purtroppo, la provvisorietà delle emissioni di obbligazioni europee, cioè la loro natura una tantum, ha, in seguito, diminuito la domanda degli investitori e quindi aumentato i tassi d’interesse. Eppure, questi safe asset sarebbero la materia prima per il mercato unico dei capitali che manca ancora alla costruzione europea. Se le emissioni di eurobonds fossero utilizzate in modo permanente, anche per costituire un buffer anticiclico, ci fornirebbero la base per garantire l’espansione dell’uso internazionale dell’euro. Che potrebbe facilitare anche la politica monetaria fornendoci un po’ di quell’esorbitante privilegio di moneta di riserva finora appannaggio solo del dollaro statunitense.
Ma il finanziamento principale verrà dalla crescita. Sapendo che la crescita dipende dalla produttività (totale dei fattori) che a sua volta dipende da innovazioni adottate da imprenditori per nuovi prodotti o processi produttivi. La tecnologia innovativa è il digitale aumentato da IAgen, dunque l’elemento cardine della politica industriale deve essere lo sviluppo del capitale umano per svilupparne la ricerca, l’innovazione e la sua adozione. Per un esempio di come una ricerca o un brevetto non basti, un bell’esempio storico è la Cina che ebbe tra le mani l’innovazione epocale della polvere da sparo e l’utilizzò per i fuochi d’artificio. Più recente l’esperienza spagnola degli importanti investimenti in Information Technology che non hanno portato ad aumenti della produttività nel periodo 1995-2015 perché si era trascurata la dimensione del capitale umano per l’applicazione di quegli investimenti.
Il punto cruciale è ripensare l’applicazione della concorrenza a livello europeo in sintonia con gli obiettivi prioritari della politica industriale. Politica da guidare e coordinare a livello europeo per la “lontananza” dalle politiche nazionali. Lontananza che non garantisce contro la cattura da parte di gruppi d’interesse, ma la contrasta coi numerosi livelli di checks and balances e la sorveglianza dei diversi paesi. Egualmente essenziale è riconoscere che solo a livello europeo potremo finanziare queste politiche, dato il largo debito pubblico accumulato dai paesi europei per rispondere alle crisi.