Risolvere la crisi nel Mar Rosso e la guerra in Yemen richiede un impegno nella diplomazia, anche se l’esito potrebbe non essere favorevole per gli occidentali, lasciando il controllo della regione nelle mani degli houthi. L’analisi di Eleonora Ardemagni, esperta di Yemen, ricercatrice associata senior dell’Ispi e cultrice della materia “Storia dell’Asia islamica”e “Nuovi conflitti” presso l’Università Cattolica di Milano
La soluzione alla crisi del Mar Rosso passa necessariamente dalla diplomazia. Lo stesso vale per il conflitto in Yemen, che poi è alla radice della minaccia portata dagli houthi (noti anche come Ansar Allah) alla libertà di navigazione, strumentalizzando la guerra di Gaza.
Ora che nel dibattito pubblico occidentale il tema della diplomazia inizia ad affacciarsi – come alternativa allo strumento militare o, più realisticamente, come binario parallelo d’azione — c’è un elemento da considerare. E non è per noi rassicurante: il negoziato regionale già in corso non può che consolidare la posizione degli houthi. In Yemen e nel Mar Rosso.
Come ha confermato pochi giorni fa il segretario generale del Consiglio di Cooperazione del Golfo, Jasem Al Budaiwi, i colloqui bilaterali tra l’Arabia Saudita e gli houthi continuano nonostante gli attacchi alla navigazione commerciale del movimento-milizia sciita zaidita sostenuto dall’Iran.
Ecco, quei colloqui, iniziati nel 2022 nel quadro della tregua nazionale in Yemen, poi scaduta, puntano a un cessate il fuoco bilaterale tra houthi e sauditi. Quell’obiettivo, se e quando raggiunto, dovrebbe poi facilitare la mediazione tra yemeniti, a guida Onu, per il cessate il fuoco nazionale, facendo dunque rientrare in gioco le istituzioni riconosciute del paese, ovvero il Consiglio Presidenziale e il governo rilocato ad Aden, mai invitate da Riad – che comunque le sostiene — al tavolo negoziale.
Dall’inizio dei colloqui due anni fa, gli houthi non hanno più attaccato il suolo saudita con missili e droni, come erano invece soliti fare dal 2016. E Riad ha mantenuto fin qui un “profilo basso” rispetto alla crisi nel Mar Rosso, anche per evitare possibili ritorsioni dirette.
Nel concreto, houthi e sauditi stanno discutendo di una serie di misure: la riapertura dell’aeroporto internazionale di Sanaa e del porto di Hodeida (entrambi controllati dai miliziani), la redistribuzione dei proventi petroliferi yemeniti anche nei territori del nord ovest “governati” dagli houthi (che non controllano però giacimenti di petrolio e gas), la partecipazione finanziaria dell’Arabia Saudita alla ricostruzione delle infrastrutture distrutte dai bombardamenti, nonché al pagamento, per un periodo transitorio, degli stipendi pubblici anche nei territori del nord ovest.
Aprendo al dialogo diretto dopo anni di bombe, l’Arabia Saudita ha preso atto, nei fatti, della propria sconfitta militare in Yemen; ma ha anche riconosciuto gli houthi come interlocutori. Il “non detto” di questo negoziato — se e quando arriverà davvero il cessate il fuoco con Riyadh — è che gli houthi continueranno a “governare” il nord ovest dello Yemen. Lo faranno da una posizione di maggior forza, poiché legittimati dal negoziato bilaterale nonché dai fondi sauditi per la ricostruzione.
Sono ormai lontani i tempi (era il 2015), in cui il principe ereditario Mohammed bin Salman Al Saud credeva nella guerra-lampo per sconfiggere gli houthi. Con amaro realismo, Riad si accontenta adesso di mettere in sicurezza il proprio territorio dagli attacchi diretti, nonché preservare il Mar Rosso centrale e settentrionale – quello dei progetti turistici di Vision 2030 e dell’export, anche di greggio, verso il Mediterraneo via Suez e la pipeline Sumed – dall’instabilità marittima che ha messo invece a soqquadro il Mar Rosso meridionale.
Per gli houthi, è dunque ora conveniente tenere in vita il dialogo con l’Arabia Saudita, al fine di massimizzare le concessioni. Di certo, il ritiro degli houthi dai territori occupati militarmente prima e dopo il colpo di stato del gennaio 2015, ovvero il nord ovest inclusa gran parte della costa occidentale, non è mai stato sul tavolo. E il movimento-milizia di Abdel Malek Al Houthi non accetterebbe mai di negoziare su questo.
Nel 2018, i gruppi armati yemeniti sostenuti dagli Emirati Arabi Uniti avviarono un’operazione di terra per riprendere Hodeida e i territori costieri occupati dagli houthi. Il movimento-milizia del nord aveva già attaccato navi commerciali, soprattutto saudite, impiegando inoltre mine galleggianti e l’Arabia Saudita aveva sospeso per una settimana il passaggio delle sue petroliere per il Bab el-Mandeb. Un pericolo allora sottovalutato da noi europei e anche dagli americani, che oggi appare come un triste “trailer” del “film” in cui siamo ormai coinvolti.
Quell’operazione di terra generò invece una mobilitazione diplomatica contro il rischio di catastrofe umanitaria. L’Onu mediò allora a Stoccolma un accordo tra houthi e governo riconosciuto, che partiva dal cessate il fuoco immediato a Hodeida e dintorni. Il resto dell’Accordo di Stoccolma non è però mai stato applicato: nessun ritiro degli houthi da Hodeida e dai porti limitrofi, nessuna sostituzione dei miliziani con “forze locali”.
Oggi, sei anni dopo, le formazioni filo-emiratine in Yemen, a cominciare dai secessionisti del Consiglio di Transizione del Sud (STC), sono tornati pubblicamente a proporre un’operazione di terra per “liberare” Hodeida e la costa del Mar Rosso. E dopo di loro lo ha fatto il capo del Consiglio Presidenziale voluto e sostenuto dai sauditi. Certo, le fazioni anti-houthi offrono le loro truppe non per pura solidarietà con il commercio internazionale, ma sperando di guadagnare territori e credibilità agli occhi degli occidentali. Stavolta si sono infatti rivolte agli Stati Uniti, che colpiscono obiettivi militari houthi – talvolta con i britannici — dall’11 gennaio scorso, perché “bombardare senza un’operazione di terra non ha senso”.
È difficile che gli Stati Uniti scelgano di percorrere la strada dell’assistenza militare in Yemen ai gruppi che si oppongono agli houthi. Sarebbe assai rischioso e la tregua nazionale, che in generale viene ancora osservata dalle parti, potrebbe saltare. Certo è che Washington, Londra e Bruxelles stanno velocemente esaurendo le opzioni a disposizione per risolvere – forse persino per mitigare — la crisi nel Mar Rosso.
Il regno saudita pensava che riaprire il dialogo con l’Iran nel 2023 avrebbe facilitato la pace con gli houthi. Il negoziato è stato aperto, ma l’influenza politica che Teheran ha sul movimento armato yemenita forse è stata sovrastimata anche dalla stessa Riyadh, come emerge dall’esito influente dei colloqui indiretti tra Stati Uniti e Iran via Oman del gennaio 2024. Dopo quei colloqui gli attacchi houthi sono proseguiti e con effetti più ancora più gravi: l’affondamento della Rubymar che ha provocato il danneggiamento di quattro cavi internet sottomarini, i tre morti e quattro feriti della True Confidence.
Se vi fosse un cessate il fuoco durevole a Gaza, gli houthi potrebbero interrompere l’offensiva nel Mar Rosso. Magari la venderebbero persino come una loro vittoria. Dal momento però che gli houthi hanno tratto vantaggio politico dall’apertura del fronte marittimo, dobbiamo considerare l’ipotesi, realistica, che essi possano riprendere ad attaccare le rotte commerciali in futuro, qualora lo ritengano utile al raggiungimento dei loro obiettivi politici in Yemen. Anche nel caso di un possibile accordo tra houthi e Arabia Saudita, che consoliderebbe la presenza dei miliziani a Hodeida e sulla costa occidentale yemenita.
La soluzione alla crisi del Mar Rosso, nonché alla guerra in Yemen passa necessariamente dalla diplomazia. E va perseguita. Dobbiamo però essere consapevoli che l’esito diplomatico del negoziato regionale in corso potrebbe essere, per noi occidentali, assai poco rassicurante. Lasciando il quadrante del Mar Rosso meridionale, Bab el-Mandeb e Golfo di Aden in balia, anche nel futuro, delle spregiudicate scelte politiche degli houthi.