Il voto del Congresso Usa su TikTok segna una volontà di contrastare la propaganda autoritaria nella sfera digitale. Ma le capitali occidentali non hanno ancora una vera strategia nonostante il flusso costante di propaganda russa. Ecco perché Putin sta vincendo la battaglia dell’informazione
Mercoledì, con un sorprendente voto bipartisan, i deputati statunitensi hanno ingiunto alla casa madre di TikTok di rinunciare al controllo dell’app. L’intento è quello di evitare che una potenza straniera riconosciuta come ostile, la Cina, possa manipolare la società attraverso un canale molto presente nella vita mediatica di più della metà dei cittadini. Con le elezioni di novembre all’orizzonte, la mossa del Congresso sembra segnare un punto di svolta: i legislatori hanno deciso che questo livello di esposizione è inaccettabile e va rimodulato, anche a scapito del principio della libertà di espressione.
La svolta su TikTok va nella stessa direzione della decisione europea di bandire due principali vettori di disinformazione russa, Sputnik e RT, all’indomani dell’invasione russa dell’Ucraina a febbraio 2022. In maniera più laterale si può accostare anche alla nuovissima legge con cui il governo britannico ha vietato la vendita di giornali a governi stranieri. L’obiettivo più immediato è quello di bloccare l’acquisizione di un giornale storico, il Daily Telegraph, da parte di un fondo a controllo saudita.
Queste sono tutte decisioni di natura strategica perché tengono conto dell’uso che le autocrazie possono fare degli spazi di informazione e dibattito. E del resto, gli esempi abbondano: nella lunga lista di campagne di influenza scoperte nel corso degli ultimi anni spicca l’operazione russa a supporto di Donald Trump nel 2016. Ma anche la più recente intervista di Tucker Carlson al presidente russo Vladimir Putin ricade nella stessa categoria, come sottolinea Ian Garner, storico e traduttore di propaganda russa in tempo di guerra, su Foreign Policy.
Dispacci dal fronte mediatico
I manuali militari della Russia di Putin parlano di “guerra informativa-psicologica” a scopo di “erodere il morale e lo spirito psicologico” di una popolazione nemica. Come scrive l’esperto, si tratta di un elemento centrale nella “più ampia guerra contro l’Occidente, […] condotta online attraverso un’incessante ondata di notizie false, reali e travisate” nonché una “rete coltivata di informatori consapevoli e non, come Carlson”. Anche la portata dell’operazione è nota: “solo nel primo anno della guerra in Ucraina, i post degli account legati al Cremlino sono stati visualizzati almeno 16 miliardi di volte dagli occidentali. Ognuna di queste visualizzazioni fa parte di un attacco a tutto campo contro l’Occidente, progettato non solo per minare il sostegno all’Ucraina, ma per danneggiare attivamente i sistemi democratici occidentali”.
Verrebbe da pensare che dopo tanti anni di infowar aperta, detti sistemi democratici abbiano implementato sistemi efficaci per contenere la minaccia. All’indomani degli scandali del 2016 le piattaforme digitali si sono mosse in tal senso, e nel periodo pandemico hanno affinato le contromisure contro tipi specifici di disinformazione, quella dannosa per la salute. Ma il cocktail di propaganda è ben più complesso, e la magnitudo del progetto di Putin è tanto spaventosa quanto sono spaventosamente inadeguate le difese occidentali all’infuori degli anticorpi, per così dire, mentali.
Il punto, sottolinea Garner, è che anche quelli sono sempre più deboli. “Ciò che è indubbiamente nuovo è l’entusiasmo di un pubblico occidentale polarizzato nel ri-centrare la propria identità attorno alle narrazioni di Mosca, diventando un’arma inconsapevole nella guerra dell’informazione”. L’esempio che fa è quello del movimento QAnon, dove le narrazioni anti-occidentali, anti-sistema ed eversive sono spesso sovrapponibili con i messaggi che lancia Mosca e dove i proseliti da tempo agiscono come cassa di risonanza per contenuti creati da un Cremlino capace di cavalcare l’onda digitale; “i canali di QAnon sull’app di messaggistica Telegram, ad esempio, si sono rapidamente trasformati in forum di sentimenti anti-Ucraina e a favore della guerra”.
Quei messaggi permeano e rispuntano nel discorso democratico sotto forma di opinioni dal sapore russo sulle ragioni di Mosca e sulle presunte colpe della Nato, ad esempio. E passano anche da quella che Garner definisce “la rete di utili idioti – dai quasi-giornalisti ai rapper – che sembrano fungere da portavoce del Cremlino diffondendo costantemente narrazioni favorevoli con il pretesto di porre domande o presentare due lati di una storia”.
L’urgenza di una soluzione
Il punto, evidenzia l’esperto, è che la risposta occidentale non solo è insufficiente, ma anche in via di peggioramento. In Ue i contenuti di Sputnik e RT continuano a trovare nuove vie di accesso. Nel caso degli States, anche i legislatori si sono mostrati poco disposti a prendere provvedimenti per arginare la marea di propaganda filorussa. E da quando Elon Musk ha preso il controllo di Twitter e l’ha ribattezzato X, il social network “ha accolto apertamente le campagne di influenza russa sui suoi server”, rileva Garner. È tuttora popolato da personalità come l’ideologo di Putin Alexander Dugin, che promuove la sua visione del mondo anche in inglese. Per non parlare dell’intervista di Carlson, andata in onda su, e promossa da, X stesso.
È evidente che l’approccio Usa su TikTok, per quanto possa segnalare la volontà di intervenire con più decisione sul pericolo disinformazione, non sia una risposta al problema di fondo. E la conclusione di Garner è che non c’è più tempo. “La teoria della vittoria di Putin in Ucraina passa attraverso le capitali occidentali: se il sostegno occidentale può essere minato nel tempo, a Kyiv mancheranno le armi e le risorse per continuare a combattere. La guerra per l’opinione pubblica occidentale, quindi, per Putin è almeno altrettanto esistenziale della lotta sul campo in Ucraina. Eppure, nonostante gli abbondanti esempi di narrazioni russe che compaiono nei dibattiti occidentali, non c’è quasi nessuna discussione seria all’interno dei governi o tra l’opinione pubblica su come porre fine alla guerra informativa della Russia contro l’Occidente”.
“Molti in Occidente temono che l’interferenza online li conduca sulla china scivolosa della repressione della libertà di parola. Forse non riescono a vedere il legame concettuale tra infowar e la guerra militare e si rifiutano di riconoscere che l’Occidente è già in guerra con la Russia, anche se non si tratta di una guerra militare”, conclude Garner.