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I segreti della rivoluzione economica in Norvegia

Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori pubblichiamo l’analisi di Edoardo Narduzzi uscita sul quotidiano Italia Oggi diretto da Pierluigi Magnaschi.

Dopo otto anni di socialdemocrazia la Norvegia, unico paese tra quelli Ocse a non avere neppure un cent di debito pubblico, sceglie di essere uno dei leader del riformismo globale di questo inizio di ventunesimo secolo. La maggioranza degli elettori affida al premier, Erna Solberg, un programma di riforme che sarebbero state, non solo utopiche, ma perfino criminogene se proposte in Scandinavia nel secondo Novecento. Meno tasse e riduzione importante della pressione fiscale, privatizzazioni delle imprese pubbliche, dismissione di parte del patrimonio del fondo sovrano che ha accumulato ben 750 miliardi di euro, rivisitazione della presenza pubblica nell’organizzazione dell’offerta dei servizi del cosiddetto welfare state. Per un paese che, di fatto, non ha inflazione (l’1%), che convive con una disoccupazione minima del 3%, che non ha problemi di sostenibilità del sistema previdenziale grazie ai ricchi e continuativi proventi del petrolio e che vanta una qualità media di vita da primato per le varie classifiche internazionali in materia, la svolta programmatica lancia un segnale che va ben oltre Oslo e impatta tutti i paesi occidentali, quelli che un tempo venivano classificati come economie avanzate, costretti a fare i conti con la globalizzazione.

La maggioranza degli elettori norvegesi, i più patrimonializzati al mondo quindi anche quelli teoricamente meno preoccupati dal cambiamento, si è pronunciata in favore di riforme che modifichino, non superficialmente, gli equilibri del ‘900 tra uno Stato che fa troppo e un privato che deve pagare troppe tasse per mantenerlo e conserva troppo poco per investire su se stesso per restare competitivo nella globalizzazione. Meno tasse, meno Stato è la svolta di Oslo.

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