Il pericolo reale per il Regime degli Ayatollah è che il tempo della Rivoluzione si sia esaurito e che le forze della modernità, della globalizzazione, della ricerca di migliori condizioni di vita per una società pacificata nella comunità internazionale non siano pericolose sirene del male ma solide prospettive di pace, stabilità e crescita per una popolazione esausta. L’analisi di Domenico Fracchiolla, professore di Storia delle Relazioni internazionali Università Mercatorum, Luiss
Da diverse settimane il conflitto in Medio Oriente ha superato le pericolose linee rosse dell’escalation, con il coinvolgimento militare diretto dell’Iran. Erede del grande Impero persiano e di una cultura plurisecolare, unico Paese non arabo e sciita del Medio Oriente, l’Iran è una grande potenza regionale con 90 milioni di abitanti, storicamente in competizione per l’egemonia regionale. I nuovi equilibri degli Accordi di Abramo del 2020 e del 2022, ampliati dai negoziati con l’Arabia Saudita, hanno scatenato la politica della tensione e della guerra per procura di Teheran, per contrastare l’accerchiamento sunnita moderato – israeliano con il sostegno sottobanco ai fondamentalisti armati. Le galassie del Fronte della Resistenza dei militanti sciiti di Hamas, gli Houthi, gli Hezbollah, il Kataib Hezbollah iracheno e le milizie siriane di Assad, sono gli attori della guerra proxy, strategia efficace della plausible deniability del governo degli Ayatollah, con cui tenere al riparo i confini nazionali. Mentre l’Iran porta avanti il suo programma nucleare e addestra forze per procura in tutto il Medio Oriente, persiste il rischio di una saldatura dei conflitti in una guerra regionale su larga scala, anche se questi gruppi portano avanti agende proprie e godono di diversi livelli di autonomia di azione.
Gli Stati Uniti hanno agito in funzione difensiva, con la Gran Bretagna, attraverso azioni di polizia e libertà di navigazione contro gli Houthi, per difendere la sicurezza dei mari e la globalizzazione. In risposta ai 160 attacchi subiti negli ultimi mesi, culminati con l’uccisione di 3 marines, Washington ha portato a termine un’operazione militare che ha sottolineato l’assoluta superiorità militare e tecnologica. In 30 minuti, 125 bombe di precisione hanno colpito obiettivi militari dell’Iran e dei suoi proxy (centri di comando, gli arsenali e bunker) con attenzione a non provocare vittime tra i civili. Dal 19 febbraio si svolge anche la missione europea Auspides per proteggere il traffico marittimo civile sotto il comando strategico della Grecia e il comando tattico dell’Italia, mentre l’Iran ha presentato i nuovi sistemi di difesa antiaerea antimissile Arman e Azarakhsh, in grado di affrontare bersagli in una distanza compresa tra 120 e 180 chilometri il primo e 50 l’altro, aumentando la capacità di difesa di Teheran.
La maggiore intensità dello scontro si è estesa anche alla cybersfera e alla sfera energetica. La geopolitica energetica e della disinformazione digitale sono punti critici che potrebbero accelerare una conflagrazione regionale se la guerra a Gaza si espanderà ulteriormente, evidenziando la diffusa instabilità che consolida la saldatura internazionale a quella interna. Un gruppo hacker collegato al dissidente Mujahedin-e Khalq (Mek) ha rivendicato un attacco contro il Parlamento iraniano e gli Stati Uniti a loro volta hanno condotto un cyber attacco contro una nave spia iraniana. Diverse esplosioni hanno interessato importanti gasdotti nel sud-ovest dell’Iran, nella provincia di Chahar Mahal e Bakhtiari, a Safashahr, nella provincia di Fars, nell’Iran centro-occidentale, e a Shiraz, non distante dal Golfo Persico.
Per comprendere e allontanare i rischi di un conflitto internazionale su larga scala in Medio Oriente, bisogna analizzare la saldatura tra dimensione interna e politica estera dell’Iran, l’attore che provoca la maggiore tensione nella regione, e comprendere i caratteri e le fragilità del sistema politico interno. Le analisi occidentali sul regime teocratico dell’Iran tendono a rappresentare i governi tipologicamente sovrapponibili, pur con diverse venature di estremismo, impegnati nella retorica della lotta all’Occidente, nel finanziamento al terrorismo internazionale, nell’autoritarismo aggressivo e in piani egemonici regionali. In realtà, dalla morte dell’Ayatollah Khomeini, questa lettura, che annulla lo spazio della competizione elettorale tra le forze politiche islamiste, è fuorviante.
Nel sistema istituzionale bicefalo (istituzioni religiose e istituzioni politiche) della repubblica teocratica, esiste infatti un pluralismo limitato dagli stretti paletti ideologici ed estremisti della rivoluzione islamica, proprio di ogni autoritarismo, che si esplica nella Presidenza della Repubblica e nel Parlamento. In una prima fase, Khamenei, successore di Khomeini e al comando come Guida Suprema dal 1989, ha ampliato l’autorità del clero secondo il principio velayat-e faqih, per cui la legittimità del potere deriva direttamente da Dio, decretando il diritto “divino” ad un controllo totale della società. Successivamente, a causa dei fallimenti politici, economici e sociali, si è appoggiato in modo crescente ai militari, in una competizione senza esclusione di colpi tra forze politiche radicali, conservatori tradizionali e moderati riformisti.
La componente dei radicali, attualmente al governo, è quella più estremista, rivoluzionaria e ideologizzata, a favore della stretta applicazione del codice morale islamico, contro la rilassatezza dei costumi e che lavora per una società di uguali da realizzarsi attraverso un’economia statale centralizzata che redistribuisce la ricchezza. In politica estera, gli Stati Uniti e Israele sono il grande e il piccolo Satana da combattere. Dopo il decennio di Khomeini (1979-1989) i radicali sono stati al governo dell’Iran con il populista Ahmadinejad per due mandati nel 2005 e nel 2009 e nuovamente con Raisi, dal 2021 ad oggi. Quest’ultimo, molto legato agli ambienti militari, securitari, nazionalisti e populisti, ha acquisito una crescente influenza e forza nell’establishment. I Conservatori tradizionali differiscono dai Radicali per la politica economica più aperta e favorevole alla proprietà, al commercio e all’iniziativa economica privata.
I moderati, infine, avanzano istanze più liberali in economia, dalle privatizzazioni alla libera iniziativa privata islamica e propongono riforme sociali per moderare la rigorosa applicazione del codice morale. Anche in politica estera hanno posizioni più moderate, avanzando il ricorso alla diplomazia e al negoziato internazionale, soprattutto con i paesi occidentali. Istanze moderate si ritrovano nella presidenza di Rafsanjani dal 1989 al 1997 e di Hassan Rouhani nel 2013 e nel 2017, entrambi di orientamento conservatore pragmatico, che cercano di ricostruire l’economia e promuovere la pace sociale, interrompendo l’isolamento internazionale dell’Iran. La firma dell’accordo sul nucleare (Jcpoa) del 2015 è stato un successo in questa direzione, anche se effimero, per la travagliata e breve applicazione dell’accordo. Anche la presidenza del riformista Khatami è stata moderata nelle intenzioni programmatiche, cercando di promuovere riforme sociali e il dialogo con l’Occidente, ma senza risultati di rilievo o duraturi.
Nonostante questi aggiustamenti, moderati e radicali, il malcontento nella popolazione verso il regime è aumentato nei decenni, fino a determinare una protesta politicamente minacciosa per la tenuta delle istituzioni, anche se inefficace perché disarmata. La contestazione ha provocato la saldatura delle istanze dei segmenti più giovani della popolazione con la generazione dei genitori, delusi dalle promesse non mantenute dal regime, e soprattutto con le donne, che rifiutano l’autoritarismo liberticida della società islamica. Nell’ultimo periodo, i pensionati si sono aggiunti a questi segmenti insoddisfatti, esprimendo forte disapprovazione contro le impossibili condizioni di vita causate dell’erosione del potere di acquisto per l’inflazione galoppante sui beni primari.
Anche se le manifestazioni di opposizione su larga scala seguite all’uccisione di Mahsa Amini nel 2022 sono concluse da mesi, è solo la durezza della repressione, la severità dell’applicazione delle pene capitali (quasi triplicate dal 2021 al 2023) e l’utilizzo di strumenti di controllo cibernetico della società (come sull’utilizzo del hijab) che contengono, a stento, la protesta. Il regime non ha più consenso nella popolazione e la stretta autoritaria, insieme all’aggressività in politica estera, diventano gli strumenti necessari per riconsolidare il potere. Il pericolo reale per il Regime degli Ayatollah è che il tempo della Rivoluzione si sia esaurito e che le forze della modernità, della globalizzazione, della ricerca di migliori condizioni di vita per una società pacificata nella comunità internazionale non siano pericolose sirene del male ma solide prospettive di pace, stabilità e crescita per una popolazione esausta.
La sclerotizzazione dei problemi e la semplificazione ideologica di questioni complesse, a favore di volubili opinioni pubbliche, elettori in cerca di rappresentanza, swing state e deboli leadership, alimentano la lunga notte della politica internazionale. In un anno di straordinarie scadenze elettorali, in cui voterà metà della popolazione mondiale, la disinformazione e il circuito multimediale aggravano la comprensione delle crisi, lasciando spazio al crepuscolo della ragione e analisi manichee di poca profondità e molta accademia.