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Putin, l’arma della bugia è più devastante delle bombe. Scrive De Tomaso

Nella guerra all’Ucraina, lo zar intensifica la manipolazione della realtà. Un terreno di scontro sul quale le democrazie spesso arretrano di fronte di fronte alla sfrontatezza dei regimi totalitari. Il commento di Giuseppe De Tomaso

Sosteneva il grande Winston Churchill (1874-1965) che mai si dicono tante bugie come prima delle elezioni, durante una guerra e dopo una partita di caccia. La tesi dello statista inglese è così aderente alla realtà dei fatti che, forse, pure un bambino la sottoscriverebbe.

Che le campagne elettorali siano una fabbrica di sparate, di falsità e di spot a più non posso è assodato da sempre. Basti rileggere il Manualetto del candidato – Istruzioni per vincere le elezioni scritto da Quinto Tullio Cicerone (102-43 a.C.), fratello del più celebre Marco Tullio (106-43 a.C.), per averne conferma. Nei comizi, nelle manovre e nei giochi prima del voto, la propaganda regnava sovrana, anche nell’antica Roma. E la propaganda tutto è tranne rigore logico e attaccamento alla verità. Vince chi è più bravo a far credere, avrebbe sintetizzato più tardi un altro esperto della materia, come Niccolò Machiavelli (1469-1527). E far credere significa trasformare le bugie in assiomi, in certezze, in veridicità, in proclami attendibili e credibili.

Che quasi tutti i sequel delle partite di caccia sfocino in un’esaltazione delle proprie virtù venatorie, è altrettanto scontato. Nessuno vuole sfigurare nei racconti domenicali davanti agli amici o al resto della comitiva. E vai, allora, con la descrizione extra-large di carnieri stracolmi di selvaggina. Tanto, nessuno potrà dimostrare il contrario o potrà estrarre il cartellino giallo in segno di ammonizione per oltraggio all’oggettività dei fatti. Men che meno fioccherà una multa per sanzionare gli eccessi di autostima o di auto-esaltazione.

Ma se il tasso di inattendibilità delle narrazioni pre-elettorali e post-venatorie raggiunge vette alpine, il tasso d’inattendibilità delle narrazioni prebelliche, belliche e post-belliche tocca vette himalayane. Specie quando sul terreno di battaglia (soprattutto mediatica) scende e agisce il leader di una superpotenza totalitaria. Già la guerra mette a dura prova le esigenze di trasparenza informativa che tipizzano una democrazia. Figuriamoci quando una contesa militare vede al centro del proscenio un sistema illiberale e spietato. In questi casi, c’è poco da tentennare. Non solo la verità viene considerata più ininfluente di un optional, ma la bugia viene portata sull’altare manco fosse la nuova Bibbia. La bugia viene trasformata in verità assoluta, a prescindere dalle risultanze di un evento, dalle descrizioni di una vicenda o dalle controprove raccolte da organi di controllo indipendenti.

La Russia non è un Paese inoffensivo da quando Vladimir Putin ne ha preso il comando. Cecenia, Georgia, Crimea, Ucraina: gli assalti di Putin in queste aree geografiche hanno provocato una valanga di lutti e devastazioni. Ma, soprattutto, hanno messo in moto una macchina di falsificazioni, al cui confronto sfigurerebbero forse persino le campagne contro-informative sovietiche promosse negli anni della Guerra Fredda. Sarà perché proviene dalla scuola di spionaggio del Kgb, sarà perché lui stesso è abituato a manipolare la realtà manco fosse un artigiano alle prese con la creta, sta di fatto che per il nuovo zar non esiste la fedeltà ai fatti reali, ma solo l’interpretazione diabolica dei fatti. Ovviamente sibi suisque.

Né Putin dà mai l’impressione di arretrare di un millimetro davanti a vicende che si spiegano da sé. Anzi. Più lo snodo di una vicissitudine si rivela chiaro come il sole, più lui rilancia con nuove inverosimili versioni, con ulteriori depistaggi contro la verità. Il caso dell’attentato rivendicato dall’Isis è emblematico. Putin ha deciso che la regia della strage appartiene all’Ucraina e non si sposta da questo pilastro argomentativo. E continua. E più i Paesi democratici lo invitano a riflettere, più la Russia non esclude di dare il via ufficiale alla Terza guerra mondiale.

La Russia staliniana è tuttora rimpianta da Putin. Dipendesse da lui quella Russia andrebbe ricostruita dalla A alla Z. In quella Russia la Bugia trovava la massima espressione, in ogni circostanza. Josif Stalin (1878-1953) ha costruito sulla bugia sistemica purghe e processi, deportazioni e decimazioni, gulag e annessioni. Milioni di morti, milioni di famiglie separate per sempre, milioni di tragedie in nome di una verità superiore, spesso sinonimo di ideo-crazia e culto della personalità.

Eppure, nel secolo scorso, i processi-farsa imbastiti da Stalin contro i suoi immaginari oppositori hanno avuto la fortuna di essere presi sul serio in numerose nazioni occidentali. Quanti giornalisti, quanti intellettuali europei hanno creduto alle requisitorie pronunciate dagli inquisitori di Baffone? Non si contano. Idem oggi: non si contano le firme e i volti che, tutto sommato, giustificano l’operato del Cremlino. A conferma che ogni bugia, ripetuta tre volte, assurge al rango di verità acclarata.

Cosicché sono sempre le dittature a trarre maggiore giovamento dalla distorsione della realtà, vedi il vasto consenso popolare di cui tuttora beneficia Putin. A furia di ripetere i medesimi concetti, alla fine l’opinione pubblica finisce per assorbirli, con buona pace del principio di obiettività.

Purtroppo, nemmeno la lezione di George Orwell (1903-1950) e di tutti gli altri classici della letteratura distopica è servita ad attivare uno spirito critico più autonomo di fronte alle palesi deformazioni della realtà propalate dai nostalgici del conflitto armato. Non c’è verità accertata che tenga di fronte alla sfrontatezza di chi nega l’evidenza. Anzi la sfrontatezza può spingersi fino al punto di negare la verità persino (diciamo) in flagranza di reato, quando la pistola è ancora fumante.

Stalin era un fuoriclasse nell’arte di volgere a proprio favore ogni minimo imprevisto. Così come era un giudice implacabile quando addossava agli altre le colpe riconducibili a lui. Il dittatore georgiano, per citare un solo caso, fece uccidere l’astro nascente Sergej Kirov (1886-1934), per poi attribuire alla vecchia squadra bolscevica la responsabilità dell’assassinio. Ma la sequenza di accuse inventate contro amici e nemici dell’autocrate, contro popolazioni interne ed esterne, contro Paesi e leader stranieri, è così sterminata che neppure una biblioteca saprebbe contenerla.

Putin prosegue su questa scia. Sa che a furia di ripetere le bugie, quest’ultime scuotono gli animi e si elevano quasi a vangelo. Venirne a capo non sarà facile per l’Occidente. Uno perché il partito trasversale dell’indulgenza verso lo zar in carica è assai robusto. Due perché la guerra mediatica, per le democrazie, è persino più ardua della guerra militare. Putin può manipolare la realtà, le democrazie no. E in guerra il Fattore Bugia ha ormai preso stabilmente il posto, nei piani del Cremlino, del generale inverso che fermava tutti gli invasori, da Napoleone (1769-1821) ad Adolf Hitler (1889-1945).  Anzi, l’arma della bugia elevata a regola – (s)ragiona Putin – più rivelarsi più devastante di una pioggia di bombe.



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