Il futuro dell’isola è stato al centro della telefonata di ieri tra Biden, che chiede pace, e Xi, che rivendica la sovranità. Intanto, la Cina si sta attrezzando anche per resistere alla reazione occidentale imparando dagli errori della Russia in Ucraina
Un’ora e 45 minuti di discussione “schietta e costruttiva” o di scambio di opinioni “sincero e approfondito”? Questa divergenza nei resoconti della telefonata di ieri tra il presidente Joe Biden e il leader Xi Jinping riassume la situazione tra Washington e Pechino, quella di una competizione tra superpotenze che lasciano aperti i canali di comunicazione (anche con le prossime visite in Cina dei segretari americani Janet Yellen e Antony Blinken) per evitare conflitti o scontri ma sembra parlino due lingue diverse.
Un’altra dimostrazione di ciò è l’enfasi posta dalla nota cinese su Taiwan, su cui nelle ultime 24 ore sono stati rilevati trenta aerei militari cinesi come dichiarato dal ministero della Difesa dell’isola, che ha parlato di uno dei più grandi dispiegamenti di quest’anno. “È la prima linea rossa insormontabile nelle relazioni sino-americane”, ha dichiarato Xi ribadendo la linea di Pechino secondo cui Taiwan è Cina. “Non lasceremo che le attività separatiste, la connivenza esterna e il sostegno alle forze dell’indipendenza di Taiwan restino incontrollati”, ha aggiunto. E ancora: “Ci auguriamo che gli Stati Uniti mettano in pratica la dichiarazione positiva del presidente di non sostenere l’indipendenza di Taiwan”. Biden, invece, ha chiesto “pace e stabilità” in tutta l’isola, con evidente riferimento alle minacce cinesi di invasione.
Intanto, la Cina si sta preparando anche economicamente a questo scenario imparando dalla Russia, che si è fatta trovare impreparata alla risposta occidentale all’invasione dell’Ucraina in termini di sanzioni imposte da Stati Uniti e G7. “La Cina tenterà probabilmente di dividere il G7, limitando così l’impatto delle sanzioni”, si legge in un rapporto di Atlantic Council e Rhodium Group pubblicato ieri. Inoltre, Pechino “sta cercando di resistere alle sanzioni sviluppando alternative al sistema finanziario basato sul dollaro, tra cui una rete di transazioni denominate in renminbi”, spiegano gli esperti osservando come la tempistica di una crisi possa “alterare significativamente l’impatto degli strumenti di statecraft” come le sanzioni “sia per il G7 sia per Pechino”.
In ogni caso, la Cina dovrà affrontare costi elevati a breve e medio termine se utilizzerà i suoi strumenti di statecraft economico. Infatti, quasi 45 milioni di posti di lavoro in Cina dipendono dalle esportazioni verso i Paesi del G7. In uno scenario di forte escalation, “la maggior parte di questi posti di lavoro sarebbe almeno temporaneamente a rischio”, si legge nel documento. Anche per questo Pechino “potrebbe preferire evitare ritorsioni per motivi strategici” concentrandosi invece sui settori in cui può infliggere danni in maniera asimmetrica, in particolare attraverso l’uso di controlli sulle esportazioni o restrizioni commerciali, concludono gli esperti.