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Siria, cosa imparare dall’esperienza in Kosovo

Armi in Siria

Pubblichiamo un articolo del dossier “Crisi siriana, Berlusconi a Strasburgo, municipali a Mosca” di Affari Internazionali.

Lo schema richiamato in questi giorni per la Siria, dopo l’immane tragedia prodotta dall’uso di armi chimiche nei villaggi della Goutha, è quello del Kosovo, che notoriamente portò ai bombardamenti della Nato in Serbia nel 1999 per 78 giorni. Preme qui evidenziare similitudini e differenze tra le due situazioni.

Goutha come Racak
Come sarebbe il caso per la strage nella Goutha, per il Kossovo l’evento che costituì la causa prossima (“trigger”) della decisione di bombardare la Serbia fu, come si ricorda, la strage di Racak del 15 gennaio, che registrò 45 vittime di etnia albanese.

Si diffuse un allarme internazionale per l’impatto umanitario del massacro. La scena che si presentò alle telecamere della Cnn fu una sfilata di corpi tragicamente allineata sul terreno, e la prima denuncia delle responsabilità delle forze armate di Belgrado fu dell’Inviato Speciale dell’Osce, l’americano William Walker, subito dichiarato da Belgrado persona non grata ed espulso. Ma, cosa era successo in precedenza?

Premesso che l’eccidio si collocava nel contesto di una serie di guerre che avevano già smembrato la vecchia Yugoslavia e ricondotto la Serbia entro una piccola Jugoslavia (dichiarazione di indipendenza di Slovenia e Croazia nel 1991, uscita delle forze armate serbe e indipendenza della Macedonia nel 1993, accordi di Dayton per la Bosnia-Herzegovina nel 1995), fin dal 23 settembre 1998 il Consiglio di Sicurezza aveva, con voto unanime, richiamato con forza Slobodan Milosevic alla cessazione delle ostilità, a negoziati per una soluzione politica, all’accesso di osservatori internazionali e agenzie umanitarie, e chiesto al medesimo di astenersi da ulteriori attacchi e violenze.

Subito dopo, il 16 ottobre, Richard Holbrooke aveva perseguito e raggiunto con Milosevic un’intesa sul cessate-il-fuoco e l’invio di una missione di “verificatori” Osce, intesa avallata il 24 ottobre da una risoluzione del Consiglio di Sicurezza, anch’essa unanime.

Negoziati a Rambouillet
A seguito della strage di Racak, il 29 gennaio si era riunito a Londra il Gruppo di contatto – inaugurato nelle prime fasi della travagliata vicenda balcanica con la partecipazione dei principali protagonisti esterni della crisi, Stati Uniti, Russia, Germania, Regno Unito, Francia e Italia, e il sostegno delle Nazioni Unite – che aveva deciso un’indagine internazionale sulla strage e invitato le parti a raggiungere un accordo entro 21 giorni.

Seguì una lunga tornata negoziale a Rambouillet, nei pressi di Parigi, sotto l’egida dello stesso Gruppo di contatto, presenti una delegazione governativa serba e una kossovara rappresentativa delle varie componenti di militanza attiva.

Nessuna delle due parti fu disposta a firmare il documento d’intesa, che prevedeva una “sostanziale autonomia” del territorio, il ritiro di Belgrado, e una presenza militare internazionale (Nato) di garanzia. In assenza di risultati, la sessione fu dapprima prorogata e poi ri-programmata a distanza di qualche settimana a Parigi.

La delegazione serba continuò a rifiutare sia l’autonomia, che avrebbe di gran lunga modificato lo statuto di assimilazione introdotto nel 1990, sia la “presenza di sicurezza” in loco, ma questa volta la delegazione kossovara si convinse a firmare, aggiungendo una dichiarazione interpretativa che prospettava un referendum sull’indipendenza del territorio.

Si era nel frattempo sviluppato un esodo epocale di kossovari verso l’Albania, a causa di uno spietato incremento di repressione e violenze. A nulla valsero le pressioni dei paesi del Gruppo di contatto, inclusa la Russia, sulle autorità serbe. E a nulla valsero le successive missioni di Holbrooke a Belgrado per convincere Milosevic ad accettare i termini di Rambouillet.

Risultò impossibile concordare con Mosca una Risoluzione del Consiglio di sicurezza che autorizzasse l’intervento militare. Si fece allora ricorso al principio innovativo della “responsability to protect” da parte delle autorità costituite, sfruttando al contempo il forte allarme che andava diffondendosi sulla “catastrofe umanitaria” in corso.

Il 24 marzo iniziarono i bombardamenti della Nato, che raggiunsero il cuore della capitale il 3 aprile (il Consiglio atlantico aveva autorizzato attacchi aerei fin dal 13 ottobre 1998). Il 4 aprile l’esodo di kossovari fu stimato in 800.000 persone. L’Italia organizzò un ponte aereo e navale umanitario per soccorrere l’Albania.

Il bombardamento fu sospeso solo il 10 giugno, quando effettivamente iniziò il ritiro delle Forze Armate e di Polizia serbe dal Kossovo.

Seguì la risoluzione del Consiglio di sicurezza 1244 che, recependo l’intesa raggiunta in ambito G/8 con la Russia, fu adottata con la sola astensione della Cina. Silente sull’intervenuta operazione Nato, essa prevedeva un’Amministrazione provvisoria delle Nazioni unite e una forza militare di garanzia sul terreno, lasciando impregiudicata l’indipendenza del Kosovo ed anzi riaffermando l’integrità territoriale della Federazione Jugoslava (il cui successore è poi divenuta la Serbia).

A tutt’oggi, il Kosovo è riconosciuto come Stato indipendente solo da 103 su 193 paesi (non da Russia e Cina), e anche nell’Unione Europea non vi è unanimità (mancano all’appello 5 stati membri).

Concertazione internazionale
La sequenza Kosovo evidenzia la complessità del processo, che fu al contempo politico e militare e impegnò i protagonisti internazionali in una concertazione ampia e strutturata, precedente e successiva all’attacco Nato.

Il Gruppo di contatto si avvalse dell’ottimo (e rimpianto) negoziatore Holbrooke, che nel 1995 aveva chiuso gli Accordi di Dayton per la Bosnia ottenendo la firma di Milosevic in veste di “testimone” (con Izetbegovic e Tudjiman) e che, come altri protagonisti esterni della crisi, mantenne un assiduo contatto diretto con lo stesso Milosevic, utilizzandolo fino all’ultimo come cruciale interlocutore.

Coltivò, dal lato kossovaro, contatti con i moderati di Rugova e al contempo con la società civile e soprattutto con il nuovo leader dell’ “Esercito di liberazione” Hashim Thaci, procedendo per mesi ad addestrare l’Sfu finché non divenne interlocutore disciplinato e credibile.

Si preoccupò, al costo di una dose di ambiguità, di ricorrere all’avvallo del Consiglio di sicurezza, per quanto possibile, nei momenti cruciali dell’intera operazione: se a Rambouillet la Serbia di Milosevic poté beneficiare del fiancheggiamento di Mosca nel resistere alle proposte, la risoluzione 1244 registrò il consenso della Russia che, assieme all’auspicato rientro nell’alveo dell’Onu della gestione della crisi, ottenne la mancata pronuncia sull’indipendenza del territorio che avrebbe creato un precedente di suo diretto interesse nazionale.

Merita sottolineare che l’Amministrazione provvisoria dell’Oun (Unmk) prevista dalla risoluzione 1244 durò per anni, fino alla recente sostituzione con Eulex, a guida, che la forza di monitoraggio a guida Nato (Kfor, all’inizio 16.000 uomini, con punte successive di decine di migliaia) è ancora presente in Kosovo, e che il processo negoziale per reperire una soluzione politica è tuttora in corso: un enorme investimento della comunità internazionale, Stati Uniti ed Europa in primis.

Va inoltre ricordato che Milosevic fu dismesso dal potere dagli stessi serbi a seguito di regolari elezioni nell’ottobre 2000, ove il voto premiò l’opposizione inaugurando un cambio della guardia. Il governo Kostunica procedette qualche mese dopo ad arrestare Milosevic e a spedirlo al tribunale dell’Aja per essere giudicato di crimini di guerra e contro l’umanità.

Autoassoluzione occidentale
Lo scenario della Siria registra sostanziali differenze con il Kosovo, a partire dalla variegata schiera di protagonisti esterni non occidentali, ivi incluso l’Iran, portatori di visioni e interessi disomogenei, e dall’insufficiente spessore del coinvolgimento dell’occidente sul piano politico e dell’assistenza alle parti ad eccezione degli aiuti umanitari.

Né i vari circuiti di contatto con esponenti dell’opposizione organizzati nelle diverse capitali sono riusciti finora a sanarne la frammentazione, a confrontare la tremenda sfida posta dai combattenti jihadisti, e non ultimo a fornire risposte convincenti ai curdi, intrappolati in uno scenario che apparentemente riserva loro solo la via di fuga verso l’Iraq.

Ma ove si delineasse comunque un intervento internazionale sul modello Kossovo, occorrerebbe quantomeno chiedersi se le condizioni per applicarlo siano riunite. Se, soprattutto, l’occidente sia disponibile, come fatto per il Kossovo e ancor prima per l’intero scenario jugoslavo, ad impegnarsi a fondo con massicce risorse in termini civili, diplomatici, militari, e non ultimo economici e finanziari, per un futuro che si prospetta lungo e irto di ostacoli.

Ovvero se la tragedia delle centinaia di vittime provocate dall’uso di armi chimiche non abbia messo in moto un meccanismo d’intervento che si risolva in una “toccata e fuga” senza avere alle spalle un quadro interno sufficientemente strutturato e rispondente all’obiettivo di una stabilizzazione democratica del paese, né la “neutralizzazione” delle profonde divisioni internazionali, né un progetto condiviso che ne garantisca seguiti duraturi.

Nelle circostanze date, più che al modello Kosovo, l’intervento di una coalizione dei volonterosi in Siria rischierebbe di somigliare a una “spedizione punitiva”, e forse anche ad una sorta di “auto-assoluzione” per l’Occidente.

Laura Mirachian è rappresentante dell’Italia all’Onu, Ginevra.

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