Come hanno potuto poche centinaia di miliziani penetrare le difese di uno Stato fortificato come Israele? Cosa ha colto in fallo gli 007 israeliani, entrati nella leggenda per le operazioni segrete del Mossad? Estratto del libro “Realpolitik” (Solferino) di Giampiero Massolo e Francesco Bechis
Abbiamo pensato per anni che il progresso tecnologico avesse trasformato una volta per tutte le minacce, rendendole sempre più immateriali e intangibili. I nemici di oggi e di domani, ritenevamo fossero gli attacchi hacker e le operazioni ostili sui mercati finanziari, la penetrazione degli asset strategici, l’intelligenza artificiale per alterare l’informazione, le armi di ultima generazione. Addio alle guerre combattute a terra, allo scontro corpo a corpo, alle trincee: retaggi del Novecento, un passato che almeno l’Occidente – ci si era illusi – avrebbe potuto rimuovere.
Poi, poche migliaia di talebani armati di Kalashnikov hanno messo in fuga le forze armate dell’Afghanistan, addestrate dagli americani e rifornite di elicotteri, missili e armamenti di ultima generazione. Vladimir Putin ha invaso l’Ucraina con carri armati e obici di fabbricazione sovietica, scatenando una lunga, dolorosa guerra di trincea. Un gruppo di jihadisti è riuscito a fare breccia in Israele, uno degli Stati più militarizzati e difesi del mondo, e a prendere in contropiede il Mossad, il servizio esterno israeliano. Ossia nientemeno che l’agenzia di 007 entrata nel mito con la caccia agli attentatori delle Olimpiadi di Monaco del 1972 tramite l’operazione «Collera di Dio» svoltasi con gli assassinii mirati, su un arco di vent’anni, degli attentatori e dei loro complici in Europa e in Medio Oriente.
Che sta succedendo? Tante certezze si sciolgono come neve al sole. La comunità internazionale e il mondo come lo conosciamo sono scossi da minacce alla sicurezza che forse non abbiamo ancora compreso fino in fondo. Nuove e vecchie allo stesso tempo: ibride. Lo abbiamo scoperto quel 7 ottobre, alle tre del mattino.
«Un muro di acciaio.» Così, nel 2021 – solo due anni prima – Benny Gantz, allora ministro della Difesa israeliano, aveva presentato la nuova barriera divisoria al confine. Di qua Israele, di là Gaza. È costato un miliardo di dollari il rifacimento di quel muro, trasformato in un impenetrabile vallo di sicurezza, dotato di tecnologie all’avanguardia. Mitragliatrici a controllo remoto, sensori, radar, una muraglia di cemento sotterranea per impedire ad Hamas di scavare i tunnel. E invece non era così: alle prime luci del mattino del 7 ottobre, i terroristi di Hamas mettono fuori uso buona parte delle meraviglie tecnologiche del «muro d’acciaio». Colpiscono con esplosivi le mitragliatrici e le torri di controllo, abbattono le telecamere israeliane sui palloni aerostatici che sorvolano la frontiera. Non scavano tunnel come hanno fatto per anni nel sottosuolo di Gaza: si avventurano invece oltre il muro con i deltaplani, coperti dal lancio di razzi alle loro spalle per distrarre le difese nemiche. Insomma, una combinazione di mezzi tutto sommato tradizionali, solo impiegati in modo massivo e coordinato, sofisticato e asimmetrico al tempo stesso.
Com’è possibile che sia bastato questo per spiazzare gli apparati di Tel Aviv? Non è possibile, infatti. Una lunga concatenazione di errori e incidenti ha offuscato la vista all’intelligence israeliana. Quando un aereo precipita, dietro alla disgrazia possono celarsi una o più ragioni concomitanti: lo sportello che si è aperto, la pressurizzazione della cabina venuta meno, un radar impazzito, un errore del pilota. Lo stesso è successo in quelle ore di buio a Tel Aviv. Lo dicevamo: non esiste un sistema di sicurezza infallibile, la saracinesca di ferro che si abbassa e diventa impenetrabile agli attacchi esterni. Fuori dalle serie tv, nella vita reale, non c’è un solo sistema di intelligence che sia perfetto, capace di prevenire e sminare qualsiasi minaccia. Neanche il Mossad e lo Shin Bet. Israele sapeva dei piani di Hamas? Difficile capire fino a che punto. Sappiamo, grazie a decine di inchieste internazionali, che le avvisaglie non erano mancate, che alcuni rapporti erano stati consegnati per tempo al vertice politico sulle esercitazioni dei guerriglieri oltre-confine, che allarmi erano risuonati da apparati di sicurezza stranieri: l’Egitto lo ha affermato esplicitamente all’indomani dell’attacco.
Ma le informazioni da sole non bastano, bisogna saperle leggere, interpretare. Quando due aerei dirottati da terroristi jihadisti hanno disintegrato le Torri gemelle l’11 settembre 2001, l’America e il mondo sono rimasti sotto shock. Nessuno credeva che il terrorista Osama bin Laden – una singola persona – avrebbe davvero dichiarato guerra agli Stati Uniti, la superpotenza del mondo. Eppure, non erano mancate segnalazioni su un gruppo di cittadini arabi che da qualche parte negli Stati Uniti si andavano addestrando a volare, senza curarsi troppo di imparare ad atterrare. Addirittura, un mese prima, in pieno agosto, era finito sulla scrivania del presidente George Bush un briefing di intelligence dal titolo inequivocabile: «Bin Laden determinato a colpire negli Stati Uniti».
Israele ha letto in tempo i segnali premonitori dell’attacco? Evidentemente, solo in parte. Come hanno ricostruito il Washington Post e il New York Times, ricorrendo a dati da fonti aperte, tracce dell’operazione «Diluvio Al-Aqsa», che nell’ottobre 2023 ha incendiato il Medio Oriente erano già visibili mesi prima dell’invasione: dalle mappe satellitari che fotografavano campi di addestramento di Hamas sempre più larghi e attrezzati, ai video delle simulazioni, postati dai miliziani dell’organizzazione terroristica sui social network, ritratti mentre fanno irruzione in compound montati ad arte in mezzo al deserto, come macabri set cinematografici. E ancora, le conversazioni intercettate sulle radio e sui walkie-talkie dei jihadisti nei giorni precedenti al massacro. Insomma, un misto ibrido di tradizione e innovazione, di comunicazione e di disinformazione, di tecnologia e di fattore umano.
Tuttavia, la miopia degli apparati di fronte all’asimmetria dell’attacco non basta a spiegare del tutto perché il tremendo atto terroristico sia riuscito nell’intento. C’è stato un altro cortocircuito. Qualcosa di cui abbiamo parlato in premessa a questo capitolo: una crisi di fiducia tra politica e intelligence, tra decisori e esecutori operativi. Il progetto del governo israeliano di ridurre l’indipendenza del sistema giudiziario aveva già portato in piazza molte persone: non manifestanti qualunque, ma anche molti esponenti della ruling class amministrativa, vera ossatura dello Stato, sconcertati da questi sviluppi. È poi opinione diffusa tra gli analisti che alcune scelte strategiche del governo Netanyahu abbiano provocato un ulteriore scollamento, contribuendo a spianare il terreno ad Hamas. Su tutte, la decisione di concentrare il grosso delle forze militari sul fianco nord-est, nella Cisgiordania infiammata dalla politica dei settlements, la progressiva sottrazione di territorio palestinese conseguente agli insediamenti israeliani, incoraggiati dalle componenti ultraortodosse e oltranziste del governo. Il fianco di Gaza era rimasto, dunque, sguarnito e ostaggio della demotivazione, sorretto solo dalla speranza che il «muro di acciaio» al confine, insieme agli «ammortizzatori sociali», garantiti ai palestinesi della Striscia tramite i finanziamenti provenienti dal Qatar – che lo stesso Netanyahu sollecitava –, sarebbero bastati a rimandare l’escalation. Una successione di scelte che ha aperto fratture e innescato una progressiva erosione di fiducia. O, meglio, un cortocircuito come quello del 7 ottobre, che raffigura perfettamente cosa succede quando la sicurezza nazionale vacilla. Senza sicurezza, uno Stato non può più difendere il suo interesse nazionale. Se la casa è in fiamme, non si possono salvare i preziosi in cassaforte.
Realpolitik
di Giampiero Massolo con Francesco Bechis
Solferino