Se vogliamo sopravvivere come Europa, come nazione, come comunità, come società, dobbiamo darci molto da fare, tutti insieme. Questo è il senso profondo della sfilata di oggi. Il commento di Giorgio Cuzzelli, generale di brigata degli alpini in congedo, insegna sicurezza internazionale e studi strategici alla Lumsa a Roma
Per la prima volta da molto tempo la sfilata del 2 giugno ai Fori Imperiali sembra non essere oggetto di discussione. Il momento è denso di incognite. La politica e l’opinione pubblica appaiono distratte dalle imminenti elezioni europee e preoccupate per la complessa situazione internazionale. Ma proprio perché non è contestata, la manifestazione di quest’anno è un’occasione per guardare senza polemiche dietro a quei volti di uomini e donne che sfilano, e porsi alcune domande.
In un contesto internazionale in cui la prevaricazione appare vincente, la prima domanda da porsi è se questi uomini e donne siano in grado di difenderci. Nel massimo rispetto per ciascuno di loro, la risposta è, purtroppo, no. Non per cattiva volontà, si badi bene, né per incapacità, o per colpa di decisioni sbagliate, ma in ragione del mutare dei tempi. Se fino al termine della Guerra Fredda il nostro strumento militare si poteva considerare credibile, il passaggio a un mondo dove si riteneva che la guerra fosse ormai un’eventualità remota ha fatto sì che un esercito qualitativamente e soprattutto quantitativamente idoneo a difendere questo paese e i suoi alleati in caso di aggressione fosse trasformato in una sorta di gendarmeria, ad uso internazionale o interno secondo le circostanze. Nel contempo, la dirompente rivoluzione tecnologica di fine millennio ha condotto a ritenere che precisione del fuoco e dominio delle informazioni potessero sostituire la massa. Gli avvenimenti dell’ultimo biennio, tra Ucraina e Palestina, hanno messo in discussione tali presupposti. Con la massima buona volontà, e nuovamente nel massimo rispetto di chi quotidianamente serve la nazione in armi, il nostro Paese non sembra oggi disporre delle potenzialità evidenziate come necessarie da entrambi i conflitti. Non è perciò questione di cattiva volontà o malafede se l’Italia non concede ulteriori batterie di missili contraerei all’Ucraina. Semplicemente non le ha in numero sufficiente neppure per sé. Né si tratta di opportunismo o, peggio, di vigliaccheria se l’Italia cerca di allontanare l’ipotesi di un conflitto con la Russia che coinvolga un paese della Nato a margine della crisi ucraina. Significherebbe doverlo difendere, in ossequio all’articolo 5 del Trattato di Washington, e questo il nostro Paese oggi non è in grado di farlo. E non è neppure il solo, vale la pena di aggiungere.
Il discorso peraltro riguarda prevalentemente le forze terrestri, che sono quelle maggiormente toccate dai cambiamenti del dopo Guerra Fredda, e di conseguenza quelle maggiormente in sofferenza di fronte a questo ritorno al passato.
Si pone quindi la seconda domanda fondamentale vedendo sfilare questi ragazzi e ragazze in uniforme. Che cosa fare, per mettere questo Paese in grado di difendere sé stesso e i propri alleati?
Le risposte investono piani e prospettive diverse. Si tratta innanzitutto di fare giustizia di un modello di relazioni industriali e sindacali sinora applicato allo strumento militare che mal si concilia con le esigenze di un esercito che deve combattere. Sul concetto oggi in apparenza dominante del lavoratore pubblico in divisa deve tornare a prevalere il sistema etico-valoriale del soldato disposto a sacrificarsi per la collettività. Occorre cioè tornare a contrapporre l’etica del dovere alla straripante logica dei diritti.
Alla questione etico-morale appena accennata si accompagna poi il problema della preparazione tecnico-professionale dei singoli e delle formazioni. Se per trent’anni si è fatta in massima parte interposizione tra parti in conflitto, tornare ad occuparsi di guerra convenzionale a tempo pieno non è semplicissimo. E occorrerà concentrarsi su tali compiti, lasciando perdere altre funzioni, ancorché significative in termini di ricaduta politica e di immagine.
In seconda battuta è necessario guardare ai numeri. Senza immaginare un ritorno alla Guerra Fredda, si dovrà rivederli in modo significativo e incrementarli sulla base degli impegni prevedibili. Ciò di cui si dispone allo stato è – forse – sufficiente per un primo schieramento, ma non oltre. Nel contempo, il livello della domanda è tale da non poter essere soddisfatto per il tramite dell’attuale modello di reclutamento professionale. Esso infatti non appare sostenibile né per fasce di età, né sotto il profilo quantitativo e tantomeno dal punto di vista economico. Si palesa dunque la necessità di una scelta politica coraggiosa, che preveda il ritorno a forme mediate di coscrizione obbligatoria. Soluzione che anche altri Paesi stanno in questo momento considerando.
Da ultimo vi è l’esigenza di dotare lo strumento dei mezzi e degli equipaggiamenti necessari per sostenere lo sforzo prevedibile, sia in termini di ricapitalizzazione dell’esistente, a lungo trascurato, sia sotto il profilo di nuove acquisizioni. Ciò a fronte di un quadro industriale da tempo di pace, nel quale le aspettative delle aziende fanno sovente premio sulle necessità immediate dello strumento e i numeri prodotti sono lontanissimi dalla realtà dei campi di battaglia.
Il ragionamento ci conduce perciò alla terza domanda: dove trovare le risorse economiche per tutto questo?
Occorre innanzitutto ragionare sul quello che è il prioritario interesse nazionale. L’interesse primario di uno Stato risiede nella sicurezza delle istituzioni e dei cittadini da un lato, e nella crescita della società dall’altro. I due fattori sono peraltro interdipendenti. Non può esserci crescita senza sicurezza. Come ha sostenuto il Presidente della Repubblica, non può esservi un baratto tra i valori fondanti della nostra società e la sua indipendenza, ovvero tra libertà e sicurezza. In sostanza, qui si tratta di decidere il prezzo che si è disposti a pagare per la propria libertà. Sotto il profilo economico, a fronte delle perduranti difficoltà congiunturali e di un disavanzo di bilancio di proporzioni colossali, la scelta appare essere tra il mantenimento dello stato sociale come lo conosciamo oggi, l’ulteriore crescita del paese con il necessario corollario della transizione energetica, o la ridefinizione del sistema di sicurezza. Le tre cose insieme non si possono fare.
Bisogna dunque chiedersi – e questa è la quarta e ultima domanda – se l’Italia possa fare da sola sotto il triplice profilo delle sfide qualitative, quantitative ed economiche sinora evidenziate. La risposta è nuovamente no.
Così come sotto il profilo politico-militare la sicurezza del Paese di fronte alla grandezza delle sfide non può che dipendere da un sistema di alleanze, perché da soli è impossibile farcela, sotto il profilo politico-economico la soluzione del problema va cercata nel contesto continentale. Con buona pace degli atlantisti più convinti, tuttavia, non può essere la Nato a farsene carico. Incaricata della difesa collettiva, l’Alleanza Atlantica ha il suo principale rilievo sotto il profilo politico-militare, ma non ha gli strumenti per incidere in modo determinante né sulla disponibilità di risorse da dedicare alla sicurezza né sulle politiche finanziarie ed industriali necessarie allo scopo. L’attore non può che essere l’Unione europea. Unione che deve da un lato rivedere i trattati esistenti per includervi in modo coerente il sostegno alla difesa collettiva degli stati membri – ciò che oggi non è – e dall’altro farsi carico di una politica maggiormente attiva nel campo degli investimenti per la sicurezza. Politica che oggi tuttavia non appare sostenibile sotto il profilo finanziario, dal momento che Next Generation Eu a livello comunitario e Pnrr in sede nazionale fanno già la parte del leone. Occorre dunque avere il coraggio di lanciare una nuova iniziativa, immaginando la collocazione sui mercati internazionali di titoli garantiti dall’Unione finalizzati al sostegno dei programmi di difesa comune nel frattempo elaborati. Solo così si potranno reperire le risorse necessarie per fare fronte all’esigenza.
In conclusione, il quadro delineato lascia poco spazio all’ottimismo. Se vogliamo sopravvivere come Europa, come nazione, come comunità, come società, dobbiamo darci molto da fare, tutti insieme. Questo è il senso profondo della sfilata di oggi.