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Perché all’Italia serve intelligence economica. Intervista al generale Mori

L’ex comandante del Ros e direttore del Sisde fa il punto con Formiche.net un anno dopo la sua lezione alla Luiss: sono necessari un approccio più aggressivo e un nucleo che, dentro il Dis, sia il raccordo tra le esigenze del governo e quello delle imprese

Poco meno di un anno fa il generale e prefetto Mario Mori, già comandante del Ros dei Carabinieri e direttore del Sisde, teneva una lezione al seminario “Intelligence economica nell’era digitale” presso la Luiss School of Government.

È cambiato qualcosa da allora per quanto riguarda l’intelligence economica in Italia?

In quella circostanza buttammo un sasso nello stagno. E credo che abbiamo suscitato qualche attenzione, a partire da quella del sottosegretario Alfredo Mantovano (Autorità delegata alla sicurezza della Repubblica, ndr). Abbiamo avuto segnali positivi anche dalle imprese e con alcune di esse, grazie anche all’impegno del professor Giovanni Orsina, abbiamo già avviato alcune masterclass.

Perché l’intelligence economica è così importante oggi?

Ormai l’intelligence economica ha assunto una rilevanza eccezionale. Oggigiorno fare la guerra con eserciti costa di più e rende di meno. Conquistare mercati acquisendo imprese e promuovendo attività di lobbying dà lo stesso risultato: prevalere sull’avversario.

E nel particolare dell’Italia?

Per l’Italia è particolarmente vero questo, per via del tipo di economia, ovvero il cosiddetto nanismo italiano. Il nostro tessuto imprenditoriale è formato prevalentemente da piccole e medie imprese che fanno prodotti di eccellenza ma che sono pressoché indifese davanti a possibili attacchi da intelligence ostili. Per Paesi come Francia e Stati uniti è diverso: le loro aziende hanno già da sé una certa capacità di penetrazione, anche grazie alle loro dimensioni.

Qual è la risposta?

È fondamentale rafforzare sempre di più il rapporto tra intelligence e imprenditoria. E in questo il ruolo dello Stato è cruciale: prima era chiamato a decidere le politiche, oggi deve invece sostenere l’attività delle imprese all’estero. Prima di noi l’hanno capito Paesi come la Francia e il Giappone. In particolare, l’attività di intelligence di quest’ultimo è pensata proprio per fornire sostegno all’economia, anche operando contro chi aveva prodotti industriali superiori a suoi e senza fare tante distinzioni tra Paesi amici e non.

Come dovrebbe operare l’Italia, una potenza regionale, in un contesto di competizione tra superpotenze e minacce ibride per tutelare i proprio interessi economici, finanziari e industriali?

È necessario, per prima cosa, individuare le aree d’interessi. Poi serve passare dalla fase difensiva, che è la tradizione per l’Italia, a quella offensiva, per preparare il terreno affinché le imprese italiane possano guadagnare posizioni nel commercio internazionale.

Come si passa dalla difesa all’attacco?

Serve un approccio più aggressivo, andando a individuare le aree che offrono possibilità economiche e facendo anche azioni di lobbying verso Paesi e imprese per favorire i prodotti italiani. Poi è fondamentale dare gli input necessari e sostenere le imprese italiane quando iniziano a entrare nel sistema di altri Paese.

Chi può, oltre a funzionari e agenti, operare come una “spia” oggigiorno?

Anche il ruolo dell’imprenditore all’estero è importante, perché questi prende contratti con il mondo imprenditoriale. E, con l’input dei nostri servizi, può riuscire a penetrare in determinati settori, ottenere commesse e ritorni economici che innescano un circuito virtuoso per tutto il Paese. Per farlo, però, bisogna spiegare alle piccole e medie imprese come operare al meglio all’estero, che rapporti tenere con l’intelligence, che contromisure assumere in determinati contesti.

A inizio anno, l’Aisi, l’agenzia d’intelligence che ha preso il posto del Sisde con la riforma del 2007, ha lanciato un nuovo portale di prevenzione economico-finanziaria, per parlare a istituzioni, imprese e ricerca. È un rapporto che si basa sulla fiducia?

Un’impresa si rivolge allo Stato se quest’ultimo è in grado di dargli supporto, ma anche se è disposto a farlo. Per esempio, nelle masterclass che ho menzionato prima, cerchiamo di favorire lo scambio tra aziende e intelligence.

Un anno fa lei suggeriva di non costituire un nuovo servizio per l’intelligence economica. Ne è ancora convinto?

Ne sono profondamente convinto: un ennesimo pateracchio che rischia di rimanere una monade isolata non serve. La mia idea è quella di un nucleo all’interno del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza che sia il raccordo tra le esigenze del governo e quelle delle aziende: un organismo di consulenza economica, dove sono rappresentati lo stesso Dis, le due agenzie (Aisi e Aise), i ministeri interessati e le associazioni degli imprenditori come Confindustria e Confcommercio, che definisce ed elabora le esigenze del sistema economico nazionale, le passa al Dis e da lì al Comitato interministeriale per la sicurezza della Repubblica che, sulla base degli input, definisce una strategia, che passa al Dis, che a sua volta attiva le agenzie d’intelligence, che parlano con le aziende. Ciò innescherebbe un ciclo positivo.



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