Dobbiamo dare un significato all’inversione di tendenza che segnerebbe un improvviso disamore per la comunicazione politica? Forse la percezione del peso politico delle europee in Italia non ha avuto la necessaria profondità, e la testimonianza concreta sarebbe offerta dall’ulteriore calo della partecipazione al voto. La rubrica di Pino Pisicchio
Se a votare va meno della metà degli aventi diritto, aumenta la preziosità di ogni singolo voto. Se i partiti politici celebrano ad ogni giro elettorale il loro totale default in favore di un leaderismo senza freni e temperamenti, la ricerca del consenso andrà rincorsa soltanto lungo la scia del capo. Se la partecipazione del popolo al rito elettorale poggerà sull’emozione piuttosto che sulla ragione, ogni elettore verrà trattato come un “cliente” da guadagnare secondo i canoni dell’advertising: vince l’homo consumens, perde quello cogitans.
La campagna elettorale per le europee, dunque, è stata anche una impegnativa campagna pubblicitaria, che ha dovuto necessariamente praticare modalità compatibili con la sconfinatezza di circoscrizioni non a misura di diretto interfaccia cittadini-candidati, proponendosi, dunque, come spazio ideale per una comunicazione “smaterializzata”. Una propaganda che ha dovuto rimuovere quasi totalmente l’apostolato “da pianerottolo”, per privilegiare i canali digitali, peraltro particolarmente in auge cinque anni fa, gli anni d’oro della “Bestia” di Salvini, pervasivo fino all’ossessività sui social.
D’altro canto gli strumenti di propaganda alternativi al digitale, dalla carta-stampata alla tv, sono parecchio acciaccati quando non del tutto destituiti di efficacia: i giornali sono ormai un privilegio di nicchia e la tv è in auge solo presso il pubblico agè, ed è anche tramontato il tempo degli spot elettorali, repertorio dell’archeologia delle prime televisioni private. Resta, oltre alle affissioni- che ancora tirano ma solo per riconnettere i brand ai grandi leader- solo il social. Ma ha funzionato?
La lunga vigilia elettorale aveva allestito un clima di forte preoccupazione, memore dell’imponente minaccia digitale nella campagna elettorale del 2019, sulla possibilità di hackeraggi, uso di AI e fake news in grado di alterare le condizioni del libero confronto democratico. Con questo (giusto) timore l’UE si è dotata di regolamentazioni come l’ AI-Act, per arginare i rischi dei sistemi di apprendimento automatico ( impostando una disciplina generale che impone in materia requisiti di trasparenza) e il Digital Services Act (Dsa), che impone alle piattaforme online maggiori (quelle che superano i 45 milioni di utenti medi mensili) l’obbligo di adottare adeguate misure anti-manipolative in vista delle elezioni.
Che cosa è successo, allora? Sono arrivati i famigerati hacker di Putin? La Spectre di zerozerosette è entrata in azione infilando virus e malaware persino nel telefonino della casalinga di Voghera che scambia le foto del sufflè con la cugina di Gallarate su Facebook? Niente di tutto questo, parrebbe. La notizia è un’altra: la rete, almeno in Italia, avrebbe avuto un ruolo minore, sicuramente in controtendenza rispetto all’andamento degli ultimi anni. Ci sono dati interessanti al riguardo elaborati dalla società di analisi DeRev da cui emerge una tendenza al ridimensionamento dell’investimento della politica nella propaganda social.
Si tratta di cifre del tutto sottotono che-peraltro- raccontano di un’attenzione nell’ultimo mese di campagna elettorale, quello di maggio, addirittura dimezzata rispetto a quella del 2019: secondo DeRew, infatti, l’investimento sul social tradizionalmente più usato dalla politica, Facebook, che nelle elezioni precedenti vedeva un impegno di spesa dei partiti maggiori di non meno di 200.000 euro al mese, in questo turno elettorale non ha superato la cifra di 110 mila euro. Ancora più eloquente appare l’esito dell’analisi relativa all’universo dei follower dei partiti tra le maggiori piattaforme in campo: al primo posto i Cinque Stelle con 2,7 milioni, seguiti da ciò che resta della “Bestia” salviniana (con 1,8), da Fratelli d’Italia (1,3), dal PD(1 milione), dalla lista Renzi-Bonino che raccoglie una platea di quasi 800 mila sostenitori social, da Calenda (poco più di 330 mila) alla pari con l’Alleanza Verdi e Sinistra.
Interessante notare come non possa essere in alcun modo messa in relazione la popolarità del social con il riscontro elettorale: a fronte, ad esempio, della platea dei follower del Movimento Cinque Stelle si riscontrano nelle urne addirittura 400.000 votanti in meno, mentre per FdI e Pd si quintuplicano i risultati elettorali rispetto all’area dei sostenitori virtuali. Abbiamo considerato le performance dei partiti e non dei singoli candidati che attraverso blog, chat, mailing list generose, hanno messo a ferro e fuoco l’universo della Rete, portando vantaggi marginali importanti a chi aveva consolidate consuetudini di rapporto con i social, come il campione di preferenze nel sud De Caro, e non a chi si è scoperto star del web late comer, solo in occasione della campagna elettorale.
Morale della favola: dobbiamo dare un significato all’inversione di tendenza che segnerebbe un improvviso disamore per la comunicazione politica? Forse la percezione del peso politico delle europee in Italia non ha avuto la necessaria profondità, e la testimonianza concreta sarebbe offerta dall’ulteriore calo della partecipazione al voto. E forse le piattaforme si sono attestate sulla linea della prudenza nella comunicazione politica rispetto al passato, in attesa di capire come funzionano misure e sanzioni adottate dell’UE e dai singoli stati sovrani. Di certo, però, qualcosa è cambiato. Staremo a vedere fino a che punto.