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Phisikk du role – La retorica di Borgo Egnazia e la sindrome da esclusione a Bruxelles

Un atteggiamento più diplomatico da parte della premier aiuterebbe. La polemica, il digrignamento dei denti, la risposta stizzita, che fanno parte dell’armamentario di una vita politica di opposizione, di esclusione, di trincea, non si addicono al linguaggio delle relazioni internazionali e soprattutto non aiutano a fare il capo del governo. La rubrica di Pino Pisicchio

Le parole, si sa, sono pietre. Che qualche volta ti ritornano indietro violente e fanno male. Per questo le scuole della diplomazia da sempre insegnano le buone qualità di quell’arte difficile cominciando dall’uso pertinente di parole e toni. Prendiamo la performance allocutoria della presidente del consiglio Meloni nel breve volgere dall’apoteosi di Borgo Egnazia (il luogo para-hollywoodiano del G7 di giugno) alle grane di Bruxelles (luogo delle trattative per le alte cariche europee), debitamente enfatizzate, le une e le altre, dai media nazionali.

Succede allora che l’elefantiasi della comunicazione nostrana, sia indotta che autogenerata, ha prodotto labirinti iperbolici in cui oggi si rischia di perdere l’indicazione dell’uscita. Sembrava, infatti, che il G7 pugliese, celebrato dal 13 al 15 giugno con clamore mediatico trionfale, avesse sanzionato l’ingresso da protagonista della premier italiana nel salotto buono della politica mondiale: reduce da un solido successo elettorale, padrona di casa in un posto molto amato dalle pop star globali, pacche sulle spalle a Biden, Zelensky e Modi, sorellanza indissolubile con Ursula, giro in macchina elettrica con Papa Francesco, happy birthday a Schultz, baciamani di Macron, sorrisi e cucina pugliese prêt-à-porter, c’era materiale a iosa per essere soddisfatti.

E la premier non mancò certamente di esserlo, seguita da una comunicazione italiana in evidente visibilio, pregustando (e soprattutto dichiarando) un generoso upgrade nel prossimo governo europeo. L’allegrezza però è durata poco, manco due settimane e la logica “cinica e bara” delle alleanze europee si è incaricata di ridefinire le condizioni della scena su cui si chiude la partita delle nomine. Che cosa è successo, allora? Qualcosa di molto semplice e di molto regolare in Europa: l’alleanza di governo collaudata tra Popolari e Socialisti, con l’aggiunta dei liberali di Re-new ha nuovamente vinto, nonostante la perdita di 23 deputati, potendo contare su 399 voti sui 361 necessari.

Dunque il gruppo dei Conservatori che ha come leader la Meloni, se vuole può aggiungersi, se no può votare contro o astenersi, ma non entra nella penthouse della maggioranza “Ursula”. Certo, se i 25 eletti italiani di Fratelli d’Italia si fossero trovati nel Ppe piuttosto che nel gruppo Ecr avrebbero potuto rivendicare parecchio, forse anche una delle posizioni di vertice, ma così non è. D’altro canto l’avanzata travolgente delle Destre nel giro elettorale di giugno se c’è stata è apparsa piuttosto contenuta: in tutto Id e Ecr, i due gruppi delle destre sovraniste e identitarie, hanno conquistato solo 13 seggi in più rispetto al vecchio parlamento. E questi sono i numeri. In più, com’era prevedibile, la presidente italiana si trova tra due fuochi: l’esclusione dal tavolo di quelli che danno le carte e l’imbarazzo nel gruppo dei conservatori in fase di secessioni.

Che cosa, allora, non ha funzionato? L’assetto di governo uscente prevedeva 27 Commissari europei compresa Ursula, fra cui sei vice-presidenti e il “ministro degli esteri”: tutti dentro. Tra le deleghe posizioni d’importanza strategica, come il digitale, il lavoro, l’agricoltura, coesione, trasporti, energia, eccetera. E’ impossibile lasciare fuori un paese membro, ancorché fuori maggioranza, soprattutto della importanza storica, economica, demografica, politica come l’Italia, concetto rammentato autorevolmente da Mattarella in queste ore.

Certo: un atteggiamento più diplomatico da parte della premier aiuterebbe. La polemica, il digrignamento dei denti, la risposta stizzita, che fanno parte dell’armamentario di una vita politica di opposizione, di esclusione, di trincea, non si addicono al linguaggio delle relazioni internazionali e soprattutto non aiutano a fare il capo del governo. Qualche volta, se proprio non si ha tempo per andare a scuola di diplomazia, andrebbe almeno riletto qualche discorso democristiano. Aiuterebbero, se non Andreotti, dall’ironia colta e citazionista, almeno Forlani o Bisaglia, che sembrerebbero, invece, parecchio nelle corde di Tajani. Sta di fatto che la narrazione gonfia di retorica del G7 ha precipitato nella delusione le non-trattative di Bruxelles. C’è da scommettere: l’Italia sarà remunerata con una delega decente (che poi funziona se funziona il delegato) che probabilmente potrebbe essere anche un vice Ursula. Ma sembrerà lo stesso una sconfitta.



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