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Navigare la nuova complessità globale. Sfida e opportunità per le imprese italiane secondo Salzano (Simest)

Di Pasquale Salzano

L’internazionalizzazione presenta grandi opportunità, soprattutto per l’Italia, che deve farsi portavoce del mantenimento dell’ordine internazionale ma al tempo stesso è una sfida complessa che richiede strumenti, risorse e conoscenze, nonché il supporto delle istituzioni del Sistema Paese. La lectio magistralis di Pasquale Salzano, presidente Simest, dal titolo “Navigare la nuova complessità globale: sfide e opportunità per le imprese italiane nel contesto internazionale”, tenutta alla Scuola di Politiche Economiche e Sociali – Spes allo Spazio Europa

Sono lieto di essere qui con voi oggi alla Scuola di Politiche Economiche e Sociali per discutere un tema di estrema rilevanza nel contesto attuale: lo scenario geopolitico internazionale e i suoi impatti sulle relazioni economiche, con un focus sulle azioni necessarie affinché le imprese italiane rimangano competitive in un contesto in costante mutamento.

Il 2023 è stato l’anno con il maggior numero di conflitti dalla Seconda guerra mondiale. Non sorprende dunque che di fronte alle tensioni geopolitiche ed economiche innescate si sia diffuso il concetto di “grande frammentazione”.

Questa dinamica è il risultato degli ultimi anni, che hanno visto emergere nuove crisi e punti di rottura, contribuendo significativamente a rafforzare le tendenze “disgregatrici” nella politica internazionale, sul piano economico, geopolitico, sociale e tecnologico.

La competizione globale per il controllo dei settori strategici è andata accrescendosi, causata anche dalle difficoltà delle istituzioni multilaterali in un mondo ormai multipolare, l’affermazione di nuovi attori del “Global South”, ed il riaccendersi di vecchi conflitti in Medio Oriente, Nagorno-Karabakh e nello Stretto di Hormuz che si sono andati ad aggiungere allo stallo della guerra in Ucraina.

La simultaneità di questi eventi “cigno nero”, impossibili da prevedere, sono causa e allo stesso tempo esito di un mondo frammentato. È infatti venuta a mancare una leadership solida in grado di rispondere agli alti rischi geopolitici anche a seguito della rottura di quell’ordine internazionale consolidato al termine della Seconda guerra mondiale.

Per comprendere appieno gli impatti dell’evoluzione dell’ordine internazionale sulle relazioni geoeconomiche, può essere utile fare un passo indietro nel tempo.

Il concetto di diritto internazionale viene formalizzato e sistematizzato da Ugo Grozio, con la pubblicazione del suo lavoro “De jure belli ac pacis” nel 1625. Con la pace di Vestfalia che ha posto fine alla Guerra dei Trent’anni, e successivamente le Guerre napoleoniche e le due Guerre mondiali, il sistema internazionale ha continuamente subito evoluzioni, sviluppandosi e trasformandosi in un ordine sempre nuovo, seppur precario.

Nel 1795, poi, la teoria di Immanuel Kant per una pace perpetua ha introdotto molti dei concetti che hanno guidato la formazione di un sistema internazionale regolato in parte da regole comuni che conosciamo anche oggi, come il rispetto della sovranità territoriale e il rispetto dei diritti umani universali. Questi concetti hanno influenzato dapprima la creazione delle Società delle Nazioni (1920), dopo la Prima guerra mondiale, e in seguito l’istituzione delle Nazioni Unite, il cui mandato include anche la prevenzione dei conflitti attraverso la cooperazione internazionale e il rispetto tra popoli.

Con gli accordi di Bretton Woods (1944) e la creazione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu (1945), si è visto un vero e proprio tentativo riuscito di organizzazione internazionale ed economica per garantire stabilità a livello globale.

Questo ordine internazionale è stato poi consolidato con la crescita dell’integrazione economica e finanziaria rafforzata nel 1948 con il Gatt, l’istituzione della Cee (1958) e, più recentemente, le aree di libero scambio quali il mercato unico europeo (1993), il Nafta (1994), e poi l’Organizzazione mondiale del commercio (1995).

Il risultato delle due ultime crisi, pandemia e conflitto in Ucraina, è stato quello di introdurre una “nuova complessità” a livello europeo e internazionale. La guerra in Ucraina, in particolare, ha segnato una rottura di quell’ordine stabilito dal Consiglio di Sicurezza.

Fino a qualche anno fa, lo scenario del bipolarismo sino-americano appariva il più probabile. Tuttavia, nell’attuale complesso scenario globale, assistiamo a un confronto più articolato, il cosiddetto “West and the Rest”.

Ci troviamo, dunque, di fronte a una competizione crescente che vede protagonisti non solo Cina e Stati Uniti, ma è anche alimentata dall’emergere di nuovi attori – come l’India, con la Via del Cotone che prometterebbe di riconfigurare il commercio tra Europa, Golfo Persico e Asia meridionale e l’influenza crescente dei Brics, che rappresentano oltre il 35% del Pil mondiale rispetto al 23% degli anni 2000.

Per quanto riguarda la Cina, stiamo in un certo senso assistendo ad una rivoluzione. Negli anni 2000, l’ingresso del Paese nell’OMC è stato facilitato dalla sua produzione di merci a basso costo, integrate nelle economie occidentali. Mentre i Paesi occidentali si concentravano su beni ad alto valore aggiunto, la Cina si dedicava a prodotti a basso valore aggiunto. Oggi, la Cina produce merci al alto valore aggiunto, specialmente nel settore green.

Se gli Stati Uniti stanno quadruplicando i dazi sulle importazioni di auto cinesi passando dal 25% al 100% nel 2024, l’Europa, che fino ad ora ha tentato di perseguire una strategia di de-risking volta principalmente a ridurre la dipendenza da Pechino in settori critici come le energie rinnovabili e le tecnologie avanzate, ha adottato misure simili con tariffe più basse e potrebbe subirne pesanti conseguenze.

Al contempo, sul versante europeo, i produttori cinesi hanno già conquistato quote significative di mercato e i porti europei stanno diventando punti di stoccaggio per la sovrapproduzione cinese. La quota di mercato dei veicoli elettrici di marchi cinesi in Ue è quadruplicata, raggiungendo l’8% del totale. Una influenza crescente confermata anche dal ruolo del renminbi, che, pur non sostituendo il dollaro e l’euro come principali monete di riserva, sta guadagnando importanza nel contesto dei pagamenti transfrontalieri e della fatturazione degli scambi commerciali.

In questo scenario, risulta difficile immaginare un “decoupling” tra i due sistemi economici. Sembra piuttosto configurarsi quella che viene definita una “deglobalizzazione condizionata”, dove le decisioni legate alla sicurezza tendono sempre più a sostituire quelle basate sulla convenienza economica.

Si tratta di un nuovo scenario in cui i Paesi sembrano preferire più che un non-allineamento in senso proprio, una sorta di multi-allineamento: una costellazione di partnership multidimensionali, non esclusive e dirette a soddisfare interessi e aspirazioni variabili in base alle diverse complessità del contesto geopolitico e all’emergere di nuovi attori emergenti.

Si sta dunque creando un nuovo ordine globale anche dal punto di vista delle relazioni commerciali.

Se è vero che la rilevanza degli scambi internazionali, oggi superiore di oltre quattro volte rispetto al livello dei primi anni post-unitari, è cresciuta quasi ininterrottamente dal secondo dopoguerra grazie al processo di multilateralizzazione degli scambi, con la rottura di quell’ordine, si sono accentuati segnali di un rallentamento dei flussi globali.

L’incidenza del commercio internazionale sul prodotto è rimasta al 30% negli ultimi quindici anni, dopo essere raddoppiata nei due decenni precedenti. I dati recentemente pubblicati dall’Ocse evidenziano come la crescita annuale del volume del commercio mondiale sia passata all’1% nel 2023, rispetto al robusto incremento di oltre il 5% registrato nel 2022. Nel 2023 sono state introdotte più di 2500 nuove barriere commerciali e dazi che evidenziano la crescente frammentazione a livello globale.

Infatti, alle minacce competitive e militari, l’Occidente, insieme al resto del mondo, ha risposto con il ritorno alle politiche industriali per guadagnare una maggiore autonomia in ambiti strategici per la sicurezza economica. Pensiamo ad esempio alle misure a sostegno della capacità produttiva statunitensi quali il l’Inflation Reduction Act e il Chips and Science Act e quelle europee, gli Importanti Progetti di Comune Interesse Europeo (Ipcei) e il Green Deal Industrial Plan.

In questo contesto, soprattutto per l’Italia e per il suo sistema fortemente fondato sull’export, sarà fondamentale trovare il giusto equilibrio tra le catene di approvvigionamento globali e la riduzione dei rischi, continuando a cogliere i benefici di un mercato internazionale libero e aperto.

Per quanto concerne nello specifico il commercio internazionale, abbiamo assistito a due momenti di crollo, nel 2008 e 2020, che sono facilmente spiegabili con la grande crisi finanziaria e la pandemia da Covid-19. Più significativo, però, in questo mondo frammentato è guardare a quanto è accaduto nel decennio che intercorre tra queste due date, dove il rallentamento è evidente. Secondo la Banca Mondiale, entro la fine del 2024, il commercio globale registrerà il più lento quinquennio di crescita dagli anni ’90.

Non va dimenticato, però, che nel corso degli ultimi decenni l’apertura dei mercati internazionali ha contribuito ad un evidente benessere, non solo economico: il numero di persone in condizioni di povertà estrema è sceso da quasi 2 miliardi a meno di 700 milioni; l’incidenza della popolazione in condizione di malnutrizione si è ridotta nei paesi in via di sviluppo da oltre il 25% a meno del 15%; la speranza di vita si è allungata in media di più di 10 anni. La globalizzazione è dunque associabile alle cosiddette tre “P”, ovvero pace, prosperità e progresso.

La perdita dettata da una frammentazione del commercio internazionale tra “blocchi” di paesi e la weaponization delle interdipendenze avrebbe un impatto particolarmente significativo sull’economia europea ed italiana, dove export e internazionalizzazione rivestono un ruolo centrale sulla crescita del Pil nazionale.

Secondo recenti dati della Banca d’Italia, nel 2023 l’interscambio con paesi esterni all’area euro rappresentava il 55% del Pil, a fronte del 40% della Cina e del 25% degli Stati Uniti. Nell’area euro, dunque, le esportazioni contribuiscono notevolmente alla domanda complessiva.

In questo contesto, sarà cruciale per l’Europa e per l’Italia puntare sui loro punti di forza, primi fra tutti i settori chiave dell’export. Sace ha recentemente pubblicato un report che approfondisce le potenzialità di crescita dell’export italiano dove l’Italia si conferma tra i primi esportatori al mondo: 679 miliardi nel 2025 e 4% di crescita nei prossimi due anni, con il ritorno a dinamiche di crescita simili a quelle pre-pandemia.

Secondo uno studio recentemente pubblicato, “The Italian Economy in the G7 Outlook”, nel decennio 2013-2022, l’Italia ha mantenuto la sua quota nell’export mondiale al 2,7%. Un risultato particolarmente significativo considerando che la Cina ha aumentato la propria quota dall’11% al 14,5%, sottraendo spazio alle altre grandi economie del pianeta. Nello stesso periodo, tutti gli altri Paesi del G7, eccetto l’Italia, hanno registrato flessioni nelle loro quote di export.

Infatti, negli ultimi sette anni, l’export totale di merci dell’Italia è cresciuto in dollari correnti del 48%, quasi il doppio rispetto a Francia e Germania. I “magnifici 7” settori del made in Italy [Moda, Alimentari, Arredamento, Industria del metallo, Macchinari, Motoryacht, Medicinali] hanno generato nel 2023 un export di oltre 322 miliardi di dollari e un surplus di 203 miliardi.

Questi numeri evidenziano chiaramente le grandi opportunità offerte dall’internazionalizzazione. Al tempo stesso, l’incerta evoluzione dell’ordine internazionale sottolinea la crescente centralità della geopolitica nelle scelte economiche e la sfida di trovare un equilibrio tra economia e sicurezza. Affrontare questa sfida e cogliere le opportunità della globalizzazione richiede alle imprese l’adozione di strategie mirate per rimanere competitive sul palcoscenico internazionale.

Considerato che sono oltre il 50% le grandi imprese italiane esposte ad un taglio delle forniture da paesi ad alto rischio geopolitico, le imprese italiane necessitano un’attenzione particolare all’affidabilità delle proprie forniture, sia tramite il consolidamento di partnership strategiche che tramite una spiccata diversificazione delle catene di approvvigionamento internazionali.

La crisi energetica e la carenza di materie prime causate dal conflitto in Ucraina hanno messo in luce la fragilità delle catene di fornitura globali. Diversificare gli approvvigionamenti è dunque un elemento di stabilità imprescindibile.

A questo proposito, qualche anno fa la segretaria al Tesoro statunitense Yellen ha introdotto i concetti di friendshoring e nearshoring in un’ottica di securizzazione delle catene globali del valore (Cgv).

In Europa, si sta assistendo ad una tendenza caratterizzata da una maggiore integrazione regionale degli scambi, con catene del valore più corte specialmente nei Balcani e nell’Europa dell’Est. In questo scenario di riavvicinamento, l’area del Mediterraneo allargato acquisisce una nuova centralità per l’Italia che può cogliere le opportunità legate alla sua posizione geografica strategica quale ponte tra due continenti.

Tuttavia, al 2021, secondo un recente studio pubblicato proprio da The European Ambrosetti House, l’Europa ha importato circa il 54% dei propri beni da Paesi extraeuropei, di cui il 9% dalla Cina e il 4,3% dagli Stati Uniti. Ogni euro di import in Italia proviene in media da oltre 42 Paesi diversi. L’Italia, però, si trova solo al cinquantaduesimo posto nell’Indice di sicurezza sugli import, lasciando ampi spazi di manovra.

Oltre alla diversificazione, sarà cruciale prioritizzare investimenti strategici per le twin transitions, per aziende più digitali e sostenibili. Se è evidente l’urgenza di affrontare i cambiamenti climatici, lo è altrettanto considerare la sostenibilità non solo come un imperativo ambientale, ma anche come un’opportunità per stimolare l’innovazione e promuovere la crescita economica, con notevoli benefici sulle performance aziendali. Il contesto del Green Deal europeo sottolinea l’importanza di trovare un equilibrio tra la sostenibilità economica delle imprese e le esigenze del settore produttivo nel lungo periodo, pur mantenendo l’attenzione sulle necessità legate alla decarbonizzazione.

La formazione e l’informazione sono poi strumenti indispensabili per cogliere al meglio le opportunità derivanti da tali investimenti. Un recente report pubblicato dal World Economic Forum sulle strategie per riprogettare le catene globali del valore sottolinea la necessità di passare dalle economies of scale to economies of skill, evidenziando quindi il bisogno di migliorare le competenze per soddisfare i nuovi requisiti per competere sui mercati internazionali. Attualmente, il 60% della forza lavoro necessita di formazione per colmare le lacune di competenze, e si stima che solo il 23% della forza lavoro disporrà delle competenze necessarie entro il 2030.

È chiaro che c’è una grande domanda di competenze specialistiche ed una carenza di talenti in tanti settori chiave del Made in Italy, a cui è necessario rispondere.

Il Made in Italy, infatti, rappresenta una parte significativa dell’economia italiana, con un valore del brand che posiziona l’Italia tra i leader mondiali, e va quindi tutelato. Secondo le statistiche dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto), se escludiamo le esportazioni di autoveicoli, il nostro Paese è addirittura quarto nel commercio internazionale, grazie a una diversificazione merceologica ampia e non legata a pochi settori dominanti.

L’export italiano è infatti il più diversificato in assoluto, con 3.000 nicchie di eccellenza che ci posizionano come leader mondiale. Salvaguardare questo know-how, continuando al contempo a innovare, è essenziale per mantenere la nostra competitività internazionale.

Questa necessità di formazione è stata menzionata anche dal governatore di Banca d’Italia, Fabio Panetta, nelle sue recenti Considerazioni Finali. In esse ha rimarcato la necessità di investire nello sviluppo tecnologico, in un momento dove misure protezionistiche e forte competizione rendono necessaria una capacità autonoma di sviluppo di tecnologie all’avanguardia quali la robotica, le infrastrutture digitali, di comunicazione, l’esplorazione spaziale, le biotecnologie e l’intelligenza artificiale.

In questo turbolento contesto, l’internazionalizzazione presenta grandi opportunità, soprattutto per l’Italia, che deve farsi portavoce del mantenimento di quell’ ordine internazionale aperto consolidatosi dopo la Seconda guerra mondiale. Al tempo stesso, l’internazionalizzazione è una sfida complessa che richiede strumenti, risorse e conoscenze, nonché il supporto delle istituzioni del Sistema Paese [tra cui Simest].

La chiave del successo per le imprese italiane risiede nell’adozione di strategie innovative per rispondere prontamente alle nuove dinamiche globali. Consapevolezza degli scenari, diversificazione delle catene di approvvigionamento, investimenti in sostenibilità e digitalizzazione, e la formazione continua rappresentano gli elementi indispensabili su cui costruire un futuro competitivo per il Made in Italy.

Navigare la nuova complessità globale richiede dunque gli strumenti giusti per fronteggiare le tante sfide che emergono – dall’instabilità geopolitica alla transizione verso un nuovo paradigma globale della produzione e dello sviluppo -, così come per cogliere le tante opportunità positive per l’Italia e per le sue imprese, in grado di far leva sulla tradizionale sapienza manifatturiera ed artigianale, sulla flessibilità e capacità di adattarsi ai cambiamenti, sulla vocazione all’innovazione di processo e di prodotto.

Forgiare questi strumenti richiede ricerca, studio, competenze, creatività. Ma anche fiducia nel futuro, speranza e coraggio, concetti cari al Presidente emerito della Repubblica italiana Carlo Azeglio Ciampi, a cui la vostra Scuola di Politiche Economiche e Sociali (Spes) è stata intitolata.

E allora permettetemi di concludere con le parole del Presidente Ciampi, che amava ricordare la centralità delle università, dei centri studi e delle istituzioni di ricerca come Spes nell’accompagnare e, spesso, nel preparare l’innovazione e il cambiamento nel nostro Paese: “Molto dipenderà soprattutto da come voi insegnanti, e in non minor misura voi studenti, saprete assolvere i vostri compiti: dalla vostra capacità di far sì che l’università svolga appieno quella funzione centrale di motore dello sviluppo, di preparazione della classe dirigente, di formazione delle coscienze, che le è assegnata, in una società avanzata e complessa come quella in cui oggi viviamo, per il progresso civile, sociale ed economico dell’Italia e dell’Europa”.

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