Appare ormai chiaro che per evitare il collasso dell’euro non è più sufficiente chiedere ai mercati un atto di fede. È necessaria una nuova governance della moneta unica dato che i meccanismi finora utilizzati – a partire dal Patto di stabilità e crescita (Psc) – si sono rivelati del tutto insufficienti. Nel far ciò bisognerebbe riconoscere che quella che ormai genericamente viene chiamata la crisi dell’eurozona, nasconde al suo interno notevoli differenze. Se da un lato la crisi greca nasce dalla manipolazione dei conti pubblici, quella spagnola e quella irlandese originano dallo scoppio delle bolle immobiliari e dalla fragilità dei loro sistemi bancari. A ciò si aggiunga la crisi italiana – enfatizzata da tassi sul debito ormai insostenibili e “formalizzata” dal recente declassamento di Standard & Poor’s – che rischia di essere la più pericolosa (e non solo per l’Europa) data la dimensione dell’economia. In questo caso più che l’esorbitante debito pubblico pesa l’ormai cronica incapacità di crescere a tassi adeguati e di realizzare quelle riforme strutturali da troppo tempo rimandate.
Pensare di risolvere il problema dell’euro limitandosi al rafforzamento (nei meccanismi di monitoraggio e sanzione) e all’ampliamento (fino ad includere il rapporto debito/Pil) del Psc, significherebbe arrendersi ad una visione inutilmente “contabile” che passa attraverso nuove e pesanti manovre finanziarie nei Pigs. Ciò potrebbe forse evitare il ripetersi in futuro della crisi greca, ma certamente non di quella spagnola, irlandese e italiana.
Una visione più ampia imporrebbe infatti anche la creazione di un meccanismo di vera condivisione dell’onere del salvataggio dei Paesi in difficoltà che superi gli angusti limiti (e le basse disponibilità) dello European financial stability facility (Efsf) ma, soprattutto, uno stretto coordinamento delle politiche economiche dei Paesi dell’eurozona.
La divergenza all’interno dell’area-euro non può più essere tollerata, anche perché rischia di rendere prociclica la politica monetaria della Bce, specialmente in quei Paesi che maggiormente divergono dalla Germania. Ciò è aggravato dal circolo vizioso innescato dall’austerity della visione “contabile” (che si sostanzia nel pareggio di bilancio), seguita dall’inevitabile contrazione dell’economia che rende ancora più difficile ripagare il debito e quindi necessarie altre misure di austerity, ricominciando così da capo.
Il problema a questo punto diventa squisitamente politico. La leadership dell’eurozona è davvero in grado di prendere delle decisioni che spezzino questo circolo vizioso attraverso un coraggioso passo avanti nell’integrazione europea? Guardando alle recenti timide proposte avanzate dal duo Merkel-Sarkozy e all’immobilismo dell’eurogruppo, la risposta è purtroppo “no”.
Sarebbe facile ironizzare sulla levatura di questi leader, paragonandoli a quelli che alla fine degli anni ‘80 hanno progettato l’euro (da Kohl, a Mitterand a Delors). Ma, a onor del vero, c’è ben altro. Bisogna riconoscere che l’intero contesto politico-economico internazionale è oggi radicalmente cambiato. E non in meglio per l’Europa. Non ci si è preparati per tempo, come il fallimento della Strategia di Lisbona ricorda, e la competizione globale affonda adesso le sue fauci nel ventre molle dell’eurozona, frustrando le opportunità di crescita e aggravando la crisi.
Per ribaltare la situazione molti commentatori affermano che è necessario cavalcare la globalizzazione (come ha in parte fatto la Germania) e non subirla. Ma per far ciò è necessario operare cambiamenti profondi nel sistema produttivo che presentano, tuttavia, alti costi politici – oltre che economici – nel breve-medio termine.
Per quanto frustrante possa sembrare, l’attuale leadership politica dell’eurozona non sembra essere in grado – o se si preferisce non ha margini di manovra – per spingere verso una profonda revisione dei propri sistemi produttivi da operare necessariamente all’interno di un contesto sovranazionale (l’eurozona), data la condivisione della stessa moneta.
Questo gli operatori finanziari internazionali lo hanno capito benissimo. Stanno, infatti, colpendo con forza l’Italia e gli altri Paesi in difficoltà, e non si intimidiscono nemmeno di fronte a due colossi da tripla A come la Germania e la Francia. Ma, paradossalmente, questo può anche rappresentare una fortuna e fornire una via d’uscita agli stessi leader politici. Si tratta di qualcosa che l’Italia conosce molto bene: il vincolo esterno. I continui attacchi speculativi all’eurozona hanno un costo talmente elevato e hanno ormai raggiunto una risonanza mediatica tale che molte iniziative che fino a pochi mesi fa rientravano al massimo nel dibattito accademico (come gli eurobond), adesso sono oggetto di un serio dibattito politico. Insomma si sta imponendo per Berlino, Parigi e Bruxelles quello che Roma conosce da tempo: se non trovi all’interno la forza per fare cambiamenti dolorosi, ma necessari, fatteli imporre dall’esterno, ovvero dai mercati finanziari internazionali. Tuttavia il vincolo esterno – proprio in quanto “esterno” – non può, per definizione, essere gestito e risulta imprevedibile. In altri termini, non programmare il cambiamento ma doverlo subire come variabile esogena può far lievitare i relativi costi – economici ma anche politico-sociali – fino a un punto di rottura oltre il quale non c’è l’integrazione ma la disintegrazione; il “si salvi chi può” che il default di un Paese fondamentale per l’eurozona – come l’Italia – potrebbe ingenerare.
Si usi dunque il vincolo esterno, ma con estrema cautela, per avviare subito iniziative importanti quali il rafforzamento dell’Efsf e, più in generale, l’adozione del Six pack, ovvero il pacchetto di riforma della governance economica europea che attende di essere approvato e sui cui “dettagli” tecnici si cerca un ultimo compromesso. Queste misure andrebbero nella direzione giusta in quanto permetterebbero di superare una visione meramente “contabile” della crisi e contribuirebbero a riguadagnare la fiducia dei mercati internazionali.