Qualche giorno fa, dalla data room del Corriere, solitamente nota per portare alla luce evidenze poco note e poco piacevoli sul nostro Paese, è stata diramata un’ondata di buone notizie in termini di imprenditori italiani che decidono di pagare le proprie tasse in Italia e di essere veramente attenti alla qualità della vita dei propri dipendenti e del territorio in cui operano.
Esperienze ben note al settore, come quella di Cucinelli, che tuttavia rappresentano un dato tutt’altro che isolato. Una ricerca condotta dalla Dynamo Academy conferma che negli ultimi anni è cresciuta la tendenza al “corporate giving” da parte delle imprese, soprattutto di medio-grandi dimensioni, sia direttamente (tramite erogazioni) sia attraverso fondazioni d’impresa.
Il tema delle donazioni d’impresa, di sicuro rilevante per il nostro Paese, richiede tuttavia una riflessione ben strutturata. Fermo restando che coloro che decidono di sviluppare un approccio imprenditoriale che tenga conto del concetto di responsabilità vadano senza dubbio encomiati, è anche importante riflettere su alcune modifiche strutturali che potrebbero favorire non solo l’incremento delle donazioni in termini quantitativi ma anche una maggiore efficacia delle stesse in ambito locale e territoriale.
Si prenda, ad esempio, il caso del settore culturale. La cultura ad oggi rappresenta una quota importante delle donazioni, il che, nei fatti, implica una duplice condizione: gli imprenditori ritengono che tale settore necessiti di investimenti aggiuntivi e che la comunità riconoscerà l’investimento in cultura come desiderabile socialmente. È, infatti, probabile che siano queste le ragioni per le quali al settore Cultura – Sport – Ricreazione le imprese coinvolte nella già citata ricerca Dynamo abbiano deciso di destinare il 62% del valore aggiunto distribuito verso comunità e territorio.
Dati sicuramente positivi, ma che probabilmente incitano ad una maggiore riflessione nel momento in cui si inizia a considerare il quadro che riflettono come una condizione strutturale del nostro Paese. Detto in altri termini: è probabile che la cultura continui a rappresentare una necessità di capitali, a essere considerata una dimensione socialmente desiderabile, a presentare una buona comunicabilità degli investimenti compiuti e che, l’insieme di questi elementi, unito ad una politica fiscale di favore (che è il riflesso del concetto di desiderabilità sociale), renda probabile l’impegno dei privati in tale settore.
Considerato nella sua dimensione strutturale, tuttavia, è lecito considerare che questo approccio (che a scanso di equivoci va considerato in ogni caso come encomiabile), possa generare anche delle distorsioni del settore. Facciamo un esempio: se in una piccola città un grande industriale che intende favorire la diffusione della cultura decide di finanziare un festival musicale, si può da un lato assistere ad una crescita del settore all’interno del territorio ma, dall’altro, si può disincentivare la nascita di manifestazioni analoghe. Se l’industriale finanzia con un milione di euro un festival cui si può accedere gratis, chi non potrà disporre di quei capitali potrebbe percepire la presenza di tale festival come una barriera all’entrata all’interno del mercato degli eventi musicali di quel territorio. Analogamente, se un’associazione di imprenditori decide di finanziare una serie di visite guidate all’interno del patrimonio culturale cittadino per favorire una migliore conoscenza delle bellezze e della storia del territorio, sarà difficile far nascere delle imprese che vendono quei servizi.
Esempi grossolani, che tuttavia consentono di inquadrare una questione che rischierebbe di divenire fin troppo tecnica, perché il cento della riflessione non è se sia corretto o meno che i privati finanzino la cultura. Il punto è piuttosto comprendere se il nostro sistema di norme e di regole consente davvero di trarre dall’impegno dei privati il maggior risultato sociale.
Attualmente, nel nostro schema di pensiero, a definire se un intervento ha una reale utilità sociale non è l’impegno, né le modalità di erogazione, né infine i risultati ottenuti bensì la personalità giuridica che lo conduce. Per nostro retaggio, infatti, si dividono i soggetti tra coloro che ambiscono al profitto (imprese di capitali, ecc.) e coloro che invece agiscono rispondendo ad una logica altruista. Ritornando ad uno degli esempi precedenti, se l’associazione di imprenditori, al posto di pagare delle visite guidate, decidesse di investire in una società di giovani che si occupa di valorizzazione del territorio, gli effetti fiscali e giuridici sarebbero interpretati in modo del tutto differente. Eppure, in termini di beneficio sociale, è probabile che l’investimento nell’azienda possa generare maggiori ritorni sociali rispetto alla sola elargizione.
Ci sono senza dubbio delle possibilità, ma l’idea che un imprenditore possa decidere di generare valore per il territorio attraverso specifici investimenti è assolutamente lontana dall’opinione pubblica prevalente. La questione, quindi, prima ancora che tecnica, è di tipo prettamente culturale: consideriamo socialmente desiderabile ciò che non produce profitto, anche quando, tendenzialmente, la produzione di profitto potrebbe essa stessa essere socialmente desiderabile.
Spostare l’attenzione dal soggetto all’oggetto potrebbe dunque stimolare non solo l’offerta culturale, ma anche la relativa domanda, incrementando al contempo il livello di sostenibilità delle imprese che operano all’interno del settore. Un’operazione tecnicamente molto complessa, ma che sicuramente sarebbe possibile se si guardasse al settore culturale con uno sguardo nuovo e coerente con le ambizioni di sviluppo economico che lo stesso Governo ha più volte dichiarato di riporre in tale settore.
Perché sono le norme a riflettere i credi e le convinzioni in cui la società si riconosce, non viceversa.