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L’identità europea secondo Kundera. Scrive Ocone

Il pamphlet di Corrado Ocone, Radici e libertà. Una filosofia per l’Europa (Historica – Giubilei regnani), ripercorre alcuni momenti importanti della discussione filosofica novecentesca sull’Europa. Pubblichiamo alcuni stralci del capitolo dedicato a Milan Kundera

Forse per capire il dramma degli abitanti dei Paesi centroeuropei, i cosiddetti “Paesi di Visegrád”, nulla è più illuminante che leggere un articolo di Kundera uscito nel 1983 sulla rivista francese “Le Débat”.

Esso ci fa capire quale sia stato il loro sentimento all’indomani della caduta del comunismo, quando si sono finalmente ricongiunti a quell’Europa libera a cui anelavano ricongiungersi. È come se questi si fossero sentiti “traditi” una seconda volta dalla storia dopo che la spartizione del mondo fra i vincitori della Seconda guerra mondiale li aveva traditi una prima volta, assegnandoli all’orbita sovietica.

Kundera, con la sua acuta capacità di osservazione e di analisi, intuì con molto anticipo la forza di questa futura delusione i cui sintomi egli poté sperimentare sulla sua pelle essendo andato a vivere appunto in Francia nel 1975. Egli vide ciò che era di fatto diventata l’Europa, la sua “situazione spirituale”, molto diversa da quella che era stata un tempo e a cui i suoi connazionali anelavano. (…) La parte d’Europa situata “geograficamente al centro” del continente si è così trovata “culturalmente a ovest e politicamente a est”. Per di più sotto l’influenza della Russia comunista, cioè di uno Stato che si proponeva di annientare la loro come qualsiasi altra identità nazionale (…). Ma cosa è propriamente l’identità?

Kundera non ha dubbi: “L’identità di un popolo o di una civiltà si riflette e si riassume nell’insieme delle creazioni spirituali che solitamente definiamo ‘cultura’”. Fu per questo motivo che, tutto teso a preservare l’identità minacciata, quello che si manifestò nell’Europa centrale per tutto il periodo comunista fu quasi naturalmente un “dissenso” culturale e animato dagli uomini di cultura (…) Kundera a Parigi si accorge, da una parte, che i Paesi della Mitteleuropa non sono più tanto importanti per la nuova Europa, dall’altra, che per essa non è più nemmeno la cultura, cioè quell’elemento su cui, da buoni europei, il dissenso aveva costruito in quei Paesi la propria resistenza al regime. Kundera scopre ciò che i suoi compagni di lotta, gli amici lasciati a Praga, scopriranno qualche anno dopo: la cultura è stata sostituita da qualcosa di non definibile, ovvero da niente di definibile, cioè il nulla. Egli fa cioè esperienza del nichilismo che è la cifra europea della nostra epoca e della nostra società. Ma sul nulla si può costruire un’identità? Si può costruire quell’identità basata sulla pluralità che era l’ideale degli intellettuali mitteleuropei.

L’Europa centrale voleva essere l’immagine condensata dell’Europa e della sua multiforme ricchezza, una piccola Europa ultraeuropea, modello in miniatura dell’Europa delle nazioni concepita sulla base di questa regola il massimo di diversità nel minimo spazio. Come avrebbe potuto non inorridire di fronte alla Russia, che si fondava sulla regola opposta il minimo di diversità nel massimo spazio? All’Europa centrale e alla sua passione per la diversità, infatti, nulla poteva risultare più estraneo della Russia. Che cocente delusione sarebbe stato scoprire che quell’Europa politica che si era cominciata a costruire nella parte occidentale del continente, proprio perché in preda al nulla, tendeva a riproporre, ovviamente in un contesto completamente diverso, le tendenze accentratrici, centralizzanti, standardizzanti, omogeneizzanti, che quei popoli avevano sperimentato nel periodo comunista. Che colpo scoprire che si era combattuto, e in molti erano anche morti, per un’Europa che non c’era. Un “secondo tradimento” che spiega forse tante cose anche dell’oggi.

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