Nell’inaugurare l’anno degasperiano, la sua figura va considerata nel profondo legame con la presenza politica dei cattolici. Il dibattito su questo tema è oggi una contorsione, ma tale eredità richiede la ricostruzione di un’autonomia. Solo così i cattolici possono ritrovarsi come difensori del cuore della democrazia, senza il quale il sistema rischia un collasso. La riflessione di Giancarlo Chiapello
A settant’anni dalla morte di Alcide De Gasperi, avvenuta il 19 agosto 1954, è possibile porre due considerazioni: escluso Giolitti, nel Novecento i più grandi statisti italiani che hanno governato il Paese sono tutti popolari e democratici cristiani, veri campioni di sano sovranismo, originale europeismo, chiaramente e fermamente democratici in politica in ragione della propria fede cattolica, e urge togliere dal campo l’idea che il suo pensiero sia una questione gestibile da vecchi che vi hanno rinunciato con le loro plurime giravolte.
Sul primo punto, posta la stretta colleganza con il pensiero popolare – quindi centrista solo in quanto tale – di Luigi Sturzo, segretario nazionale del Ppi a cui succedette, va ricordato il magistero degasperiano. Questo ha formato e influenzato tutti gli statisti successivi, in un continuum della storia non solo partitica ma anche della cultura democristiana (che ha una complessità, non cesure) e ha indicato una direzione all’azione democratico cristiana, non semplificabile in una sorta di formula postuma di “cultura delle alleanze”, che non diventano identità naturalmente, come preteso nella fallimentare seconda repubblica, ma sono una parte di essa nel senso della necessaria capacità rappresentativa democratica, senza la quale deperirebbe la stessa partecipazione. Ciò sia dimostrando con la sua vita e il suo impegno che la politica può essere una vocazione, sia ritrovando il bandolo del cuore della democrazia che sta nelle sue radici cristiane e a cui collegava la ricostruzione del Paese e il suo avvenire scrivendo sotto lo pseudonimo di Teofilo nelle “Idee dee ricostruttive della Democrazia Cristiana”: “una democrazia rappresentativa espressa dal suffragio universale, fondata sull’uguaglianza dei diritti e dei doveri e animata dallo spirito di fraternità, che è fermento vitale della civiltà cristiana: questo deve essere il regime di domani”.
Ha fornito anche il metodo, straordinariamente antipopulista, indicandolo in una chiara virtù se rileggiamo il suo intervento alle “Grandes Conferences Catholiques” a Bruxelles il 20 novembre 1948: “Solo il Cristianesimo, nobilitandoci per le conquiste future, può impedirci di essere presi da un’impazienza brutale di fronte alle lentezze dell’uomo. Privo della pazienza misericordiosa del Cristianesimo, l’uomo non sa più dominarsi, così che i rivoluzionari più idealistici furono spesso i più sanguinari. La pazienza! Ecco un rimprovero che si è mosso talvolta anche contro la nostra opera politica, come se la pazienza non fosse volontà tenace, ed energia compressa, tenuta in riserva, come se la pazienza non fosse la virtù più necessaria al metodo democratico, sia nella vita interna sia nei rapporti internazionali”.
Nella politica elettorale seppe esprimere questa formazione trovando la capacità di rappresentare le masse popolari anche di tendenza conservatrice (era il partito di centro che guarda a sinistra, ossia alla dimensione del solidarismo cristiano, con tale ambizione competitiva rispetto a socialisti e comunisti, defenestrati ad un certo punto dal suo governo), senza cedimenti alla destra post-fascista, e di guidarle verso un benessere contendendole al fronte popolare delle sinistre sconfitto nelle storiche elezioni del 18 aprile 1948, data che segna così il completamento della Liberazione e l’affermazione definitiva della democrazia contro le ideologie sanguinarie del ‘900 e che dovrebbe diventare una data da commemorare ogni anno come festa della democrazia italiana.
Non si può poi tacere la sua visione e il suo anelito, in stretta collaborazione con Adenauer, Shuman e tutte le Democrazie Cristiane europee, anche contro l’avversione di allora delle destre e delle sinistre, verso un’Europa capace di originale unità nelle differenze. E come poteva essere diversamente per lui, uomo di confine, già parlamentare nel parlamento composto dai rappresentanti di tanti popoli come quello austro-ungarico? Oggi, chi ha chiara l’urgenza di riannodare i fili con tale progettualità? Senza dubbio chi, instancabilmente, addita i padri fondatori democristiani europei per ridare fiato alla centralità e originalità politica, culturale, spirituale europea a livello gobale. Ossia, in linea con i predecessori, Papa Francesco che li richiama nel messaggio al gruppo del partito europeo proprio di De Gasperi, il Partito Popolare Europeo, che, come il più grande del Parlamento Europeo, ha l’onere e l’onore di inverare la sua azione con la lezione di De Gasperi, anche riprendendola nelle sue dinamiche solidali e operatrici di pace.
Il secondo punto di partenza si lega a tutta questa attualità degasperiana che non può più essere musealizzata da chi ha rinunciato a portarla nel presente e nel futuro per farne un dotto feticcio inutilizzato: questi sono personaggi di due categorie, coloro che chiudendo il partito continuatore di tale lezione, per andare ad annegarsi in rivoluzioni altrui, hanno impedito ai giovani di contendere loro in democratici congressi l’organizzazione, investendosi del ruolo di guardiani a vita del museo, e quelli che cercano di farne un collage di posizioni, spesso reinterpretate a fantasia, per giustificare scelte radicalmente diverse, tese a svuotare una tradizione politica e a fare dell’ispirazione cristiana un fatto meramente personale. In quest’ultimo caso è possibile distinguere l’eredità democristiana di Alcide De Gasperi dal filone della svolta socialista, dall’impronta assai sessantottina anche di diversi cattolici, come ad esempio della buonanima del Presidente Sassoli, diventato convintamente membro del Partito Socialista Europeo, di fatto più in linea con l’eredità di Livio Labor, assumendo la dimensione di una minoranza che usa, al massimo, lo strumento dell’obiezione di coscienza al posto di una visione valoriale e politica capace di aspirare a stare in campo autonomamente.
In questa apertura dell’anno degasperiano, tale figura va vista nel suo intreccio profondo con la presenza politica dei cattolici, su cui il dibattito è, ad oggi, una contorsione e questi, da quella eredità che presuppone la ricostruzione di una autonomia, al di là di melense e dotte formule e formulette geografiche e musicali, possono ritrovarsi come difensori del cuore della democrazia senza il quale il sistema rischia un infarto. Insomma, riprendiamoci De Gasperi!