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La Via della Seta si era messa in salita, e ora? Italia-Cina secondo l’amb. Sequi

Conversazione con l’ex segretario generale della Farnesina e capo missione a Pechino sul rapporto bilaterale dopo lo stop alla Belt and Road Initiative: “Un rapporto aperto ma fermo, nella consapevolezza dei reciproci interessi e mantenendo chiari i nostri valori e appartenenza alla famiglia euroatlantica, può essere di grande utilità, anche nell’affrontare le crisi globali”

A inizio anno il governo Meloni ha deciso di non rinnovare il memorandum d’intesa sulla Belt and Road Initiative, la cosiddetta Via della Seta, firmato nel 2019 dal primo governo Conte. Una soluzione “abilmente concepita e negoziata dalla diplomazia italiana” e risultata “la migliore possibile”, dice a Formiche.net Ettore Sequi, già segretario generale della Farnesina e ambasciatore a Pechino dal 2015 al 2019, oggi vicepresidente di Sace, direttore dell’Atlante Geopolitico Treccani e segretario generale dello European Corporate Council on Africa and the Middle East.

Secondo lei che cos’è cambiato in rapporti bilaterali e multilaterali in questi cinque anni per arrivare a questa decisione?

Certamente è mutato il contesto internazionale. Già dal 2018 la Cina ha dato segni di un progressivo rafforzamento dell’autoritarismo interno, causato dalle prime difficoltà economiche dopo la fase di sviluppo sostenuto del prodotto interno lordo e da crescenti tensioni internazionali. Ciò ha provocato, tra l’altro, il peggioramento dei rapporti con l’Occidente e in particolare con gli Stati Uniti. È noto, del resto, che una costante della Repubblica popolare sia l’aumento del “controllo” e della pervasività del Partito di fronte a situazioni di difficoltà. In Europa, il cambiamento nelle relazioni tra Cina e Occidente iniziato nel 2018 ha fatto sì che per Bruxelles la priorità si spostasse dall’attrarre capitali cinesi a limitarli, per la preoccupazione che la Cina potesse acquisire tecnologie strategiche ai danni dei Paesi europei. Del resto, già un paio di anni prima, l’acquisizione cinese della importantissima società di robotica tedesca Kuka e di Syngenta, società svizzera leader nel settore dell’agroindustria, avevano costituito il primo campanello di allarme in questo senso. Parallelamente, si faceva strada negli Stati Uniti il dibattito su una nuova strategia economica, il cosiddetto decoupling, cioè, il disaccoppiamento dell’economia americana da quella cinese sulla base del presupposto che l’interdipendenza economica potesse essere strumentalizzata politicamente dalla Repubblica popolare. Sono queste le dinamiche che, nel marzo 2023, hanno indotto Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, a parlare di derisking per l’Europa, ovvero la riduzione dell’esposizione economica verso la Cina attraverso investimenti di politica industriale in settori strategici e la diversificazione delle catene di approvvigionamento. Questo, in breve, sul piano degli scenari internazionali.

E per quanto riguarda l’Italia?

Alla prova dei fatti, il memorandum d’intesa sulla Belt and Road non ha dispiegato i risultati attesi dal nostro Paese in termini di superamento dello squilibrio commerciale bilaterale e di un più facile accesso al mercato cinese. Certamente a ciò ha contribuito la riduzione degli scambi internazionali causata dalla epidemia di Covid. Tuttavia, tra Italia e Cina vi erano aspettative rivelatesi poi diverse. Da parte italiana si sperava di poter ottenere dal memorandum rapidi e significativi benefici economici, che non sono tuttavia arrivati. Per la Cina era, invece, prevalente l’obiettivo di cooptare nella vasta schiera dei partecipanti alla Belt and Road Initiative, tra cui figuravano anche vari paesi europei, uno Stato fondatore dell’Unione europea e membro del G7. Si può anche dire che la Cina non ha saputo comprendere appieno le grandi attese di vantaggi economici da parte dell’Italia e non si è dimostrata abbastanza attenta o sensibile alle aspettative nazionali di aumento delle nostre esportazioni. L’uscita dell’Italia dal memorandum d’intesa, visto con crescente sospetto dai partner europei e atlantici, è avvenuta senza conseguenze visibili, almeno nel breve periodo, e in maniera tutto sommato serena. Del resto, alla Cina non conveniva drammatizzare il mancato rinnovo del memorandum d’intesa da parte dell’Italia, anche per non evidenziarne eccessivamente un possibile impatto negativo in termini di immagine. La soluzione abilmente concepita e negoziata dalla diplomazia italiana è risultata certamente la migliore possibile.

A fine luglio Giorgia Meloni si è recata a Pechino e Shanghai per la sua prima visita in Cina da presidente del Consiglio. Presto toccherà a Sergio Mattarella, Presidente della Repubblica. Dopo la fine della parentesi Belt and Road Initiative, si punta sul parteggiato strategico globale che compie 20 anni. Quali sono opportunità per l’Italia?

Il rilancio del partenariato strategico, avviato nel 2004, la firma di un piano d’azione triennale e di sei protocolli d’intesa in vari settori, rappresentano un messaggio da parte di Italia e Cina: il rapporto bilaterale è solido e antico e prescinde dal memorandum sulla Belt and Road Initiative. Il rafforzamento del partenariato strategico consente poi di depoliticizzare il rapporto bilaterale, pur mantenendo una alta qualità e un elevato profilo delle relazioni italo-cinesi. La Cina, con il riferimento fortemente voluto allo “spirito della antica Via della Seta” (cui da parte italiana è stato prudentemente aggiunto l’aggettivo “antica”) mira a mantenere un aggancio, almeno indiretto e strumentale, al concetto della Belt and Road Initiative. Da parte italiana si evidenzia soprattutto la portata economico-commerciale dei rapporti bilaterali anche al fine di mantenere un adeguato accesso al mercato cinese e di far fronte alla concorrenza con altri partner, soprattutto europei. Anche alla Cina conviene rilanciare il partenariato strategico, sia per mantenere agganciato un Paese G7, sia per mitigare l’impatto negativo, in termini di immagine, del mancato rinnovo del memorandum. Per l’Italia si dischiudono certamente prospettive interessanti sul mercato cinese e si previene il rischio di esclusione dalla competizione economico-commerciale con Francia e Germania.

Quali possono essere, invece, i rischi?

Innanzitutto, non bisogna avere attese messianiche per i futuri risultati del partenariato strategico e del piano triennale. L’accesso al mercato cinese continuerà a essere difficile e la concorrenza, soprattutto europea, molto aggressiva. Inoltre, la realizzazione dei programmi di collaborazione previsti nel quadro del partenariato potrebbe essere indebolita dalla necessità per l’Italia di allinearsi alle politiche commerciali europee, soprattutto nel caso dell’imposizione di dazi alla Cina, o dai vincoli che derivano dal derisking, nella consapevolezza che esistono settori strategici in cui il commercio e gli investimenti cinesi mettono a rischio la sicurezza europea e italiana.

Economia in ribasso, sovracapacità produttiva e sfide demografiche hanno segnato il recente Terzo Plenum del Partito comunista cinese. Come vede il futuro per la Cina?

La Cina affronta oggi alcune difficoltà che in futuro potrebbero compromettere o complicare la realizzazione del “sogno di risorgimento nazionale” che secondo il presidente Xi Jinping dovrà restituire alla Cina il suo posto al centro del mondo – e cioè di leadership globale – entro il 2049, a 100 anni dalla fondazione della Repubblica popolare. Oggi la Cina è alle prese con la minaccia esistenziale della “trappola del medio reddito”, sindrome che spesso colpisce le economie che esauriscono una fase di sviluppo sostenuto e rischiano di entrare in una dinamica di stagnazione. Se si verificasse questo scenario, il governo cinese non potrebbe offrire occupazione ai circa 11-12 milioni di giovani che si affacciano ogni anno sul mercato del lavoro, compromettendo in prospettiva la stessa tenuta del regime. La Cina oggi non riesce ad alimentare il proprio sviluppo con un aumento dei consumi interni.

Come mai?

Ciò è dovuto a una serie di squilibri legati al drammatico invecchiamento della popolazione, all’incremento della spesa pubblica per le pensioni, a un sistema sanitario in grave difficoltà e a causa di una crescente disoccupazione, soprattutto giovanile, che rischia di creare tensioni sociali assai preoccupanti. Tale situazione limita molto il consumo interno e spinge la popolazione a risparmiare in vista di un futuro incerto. Il governo cinese ha dunque necessità vitale di alimentare il proprio prodotto interno lordo sul lato dell’offerta, piuttosto che sul lato della domanda, ricorrendo a sussidi per le proprie imprese e immettendo sottocosto sui nostri mercati proprio quei beni, tecnologicamente avanzati, necessari alla nostra transizione verde. In sintesi, l’eccesso cinese di capacità produttiva viene scaricato sui mercati internazionali. È per questo che la Cina ha un interesse strumentale e tattico a coltivare rapporti non eccessivamente conflittuali con l’Occidente. Sarà interessante vedere se le misure economiche decise dal Terzo Plenum riusciranno ad affrontare e mitigare quale situazione.

Quali consigli all’Occidente alla luce di questo quadro cinese?

Non è certo necessario, e comunque sarebbe un puro esercizio accademico, dare consigli anche perché è già abbastanza chiaro quali siano le sfide di una relazione con la Repubblica popolare. Ritengo che le scelte del governo italiano di attribuire importanza alle opportunità economiche del rapporto con Pechino, pur mantenendo chiara la rotta sui nostri diversi riferimenti geopolitici, siano corrette. Credo anche che un rapporto aperto ma fermo con la Cina, nella consapevolezza dei reciproci interessi e mantenendo chiari i nostri valori e la nostra appartenenza alla famiglia euroatlantica, possa essere di grande utilità, anche nell’affrontare le crisi globali.

Dall’Ucraina al Medio Oriente, quale ruolo può realmente giocare la Cina negli equilibri internazionali?

Certamente un ruolo importante. Occorre però inquadrare brevemente la visione cinese. Nel tempo, gli obiettivi della Repubblica popolare non sono cambiati: affermarsi come potenza dominante nella regione asiatica, (anche grazie alla riunificazione con Taiwan e all’affermazione della propria sovranità nel Mare Cinese Orientale e in quello Meridionale); ottenere il riconoscimento di uno status paritario con gli Stati Uniti, il cosiddetto G2; mantenere aperti i propri mercati di sbocco nonché l’accesso alle materie prime strategiche, soprattutto in Africa e America Latina. Il raggiungimento di questi obiettivi presuppone scelte conseguenti di politica estera: disarticolare la convergenza euroatlantica rispetto al contenimento anticinese; impedire l’inasprimento o l’attuazione da parte di Stati Uniti ed Europa di misure di sicurezza economica che nuocciano all’export e allo sviluppo tecnologico della Repubblica popolare; consolidare un ruolo di guida o influenza sul Sud globale a sostegno dei propri interessi prioritari; mantenere il dominio su alcune catene strategiche del valore; sostenere, in maniera più o meno diretta, tutti i possibili antagonisti del fronte euroatlantico. In questo quadro, la Cina vuole evitare l’allineamento europeo alle politiche americane di contenimento anticinese.

Come?

A tal fine, intende giocare la carta dei rapporti commerciali bilaterali con i Paesi membri dell’Unione europea. I cinesi preferiscono quindi trattare separatamente con i singoli Paesi europei, per poter fare leva sui loro differenti interessi commerciali. Detto ciò, la Cina ha un interesse alla stabilità anche perché concepisce in buona parte l’influenza politica come fattore di protezione dei propri interessi economici che, come detto, hanno un potenziale impatto sulla stessa tenuta sociale della Repubblica popolare. La soluzione delle principali crisi internazionali può essere certamente un terreno di collaborazione con la Cina che non ha interesse a una destabilizzazione delle rotte e dei flussi del commercio internazionale e che può vantare rapporti con tutte le parti coinvolte nelle crisi in Medio Oriente e in Ucraina. La Cina ha avviato da tempo uno sforzo per presentarsi come una potenza responsabile e capace di promuovere il dialogo internazionale. Per esempio, nell’ultimo anno ha presentato un piano di pace in Ucraina, pur controverso in alcuni passaggi; ha facilitato con successo una mediazione tra Arabia Saudita e Iran e, alla fine di luglio, ha riunito a Pechino 14 fazioni palestinesi in conflitto tra loro favorendo una dichiarazione congiunta “per porre fine alla divisione e rafforzare l’unità palestinese.

Sia per l’Unione europea sia per gli Stati Uniti il legame con la Russia, alla luce dell’invasione dell’Ucraina, appare un elemento decisivo nel rapporto, anche commerciale, con la Cina. Quali spazi di manovra ha Pechino?

Nella complessa strategia cinese il rapporto con la Russia è centrale. Vi è a Pechino una generale diffidenza circa la gestione di Mosca del conflitto ucraino. Resta comunque fondamentale per la Cina evitare una eventuale sconfitta russa in Ucraina, potenzialmente suscettibile di causare un cambio di regime (e di schieramento) a Mosca. L’impegno di Pechino si traduce dunque in un massiccio sostegno all’economia di guerra russa sul piano dell’interscambio commerciale, dell’acquisto di energia e con la fornitura di materiali, tecnologia e componenti “dual use”, che i russi utilizzano per la guerra in Ucraina. Oggi Mosca è sempre più dipendente da Pechino per le proprie esportazioni di energia e per le importazioni di macchinari e tecnologia, ed è oramai avviata a diventare un vassallo del potente vicino. Sappiamo anche che Russia e Cina, insieme ad altri attori del Sud globale, si profilano come potenze revisioniste e hanno l’interesse comune a sfidare l’ordine internazionale esistente e la preminenza americana, limitando l’uso del dollaro come valuta per gli scambi commerciali e finanziari internazionali, anche per indebolire il regime sanzionatorio, con particolare riferimento alle sanzioni “secondarie”. La partnership strategica tra i due Paesi è dunque soprattutto intesa come architrave di una spinta revisionista dell’ordine globale in chiave antiamericana. La Cina non ha comunque interesse a legarsi in una maniera indissolubile a Mosca ma ha ancora un interesse a mantenere un rapporto con l’Occidente che consenta l’accesso alle sue tecnologie e ai suoi mercati.

Ha parlato di spinta revisionista dell’ordine globale in chiave antiamericana. Come si manifesta?

Occorre sottolineare un aspetto cruciale: la Cina ha, tra i propri obiettivi prioritari, il riconoscimento internazionale della propria centralità, che secondo Pechino implica la necessità di scalfire il ruolo di potenza mondiale degli Stati Uniti. Tale obiettivo passa anche attraverso una serie di iniziative, in aggiunta alla Belt and Road Initiative, rivolte ai Paesi del cosiddetto Sud globale con l’intento di ridefinire a proprio vantaggio gli assetti del sistema internazionale. Si tratta in particolare della Global Development Initiative, una visione dello sviluppo per attrarre i paesi più svantaggiati; della Global Security Initiative, una architettura di sicurezza mondiale per la promozione della pace, con l’obiettivo non dichiarato di indebolire il sistema di alleanze americane soprattutto nell’Indo-Pacifico e della Global Civilization Initiative, basata sul presupposto della compatibilità tra modelli economici e politici diversi in cui sono i singoli Stati a determinare i diritti, con evidenti implicazioni in termini di universalità o meno dei diritti umani. L’attenzione alle istanze del Sud globale, il rafforzamento e l’ampliamento dei BRICs+, le spinte per la “dedollarizzazione” sono le manifestazioni più visibili di questa strategia. Ma, come ripeto, la Cina ha un forte interesse alla stabilità internazionale anche per i potenziali riflessi delle crisi e dei conflitti sulla propria economia e, dunque, sulla tenuta del proprio sistema sociale.

Alcuni think tank suggeriscono alla nuova Commissione europea di rivedere il trittico partner-concorrente-rivali con cui definisce la Cina aggiungendo un quarto termine, minaccia. Pensa sia la strada giusta?

La complessità del rapporto con la Cina rifugge da spiegazioni eccessivamente rigide o aggettivazioni semplificate. La definizione dei rapporti tra Cina e Occidente sarà funzione della capacità de vari attori di gestire in maniera cooperativa o conflittuale i diversi interessi in campo. Qui vorrei fare una considerazione generale. Finora abbiamo parlato di crisi di varia natura, dalla guerra in Ucraina, alla crisi in Medio Oriente, ai conflitti commerciali. La verità è che questi conflitti, anche se limitati geograficamente, distolgono attenzione, risorse e impegno internazionali dalle sfide e dai pericoli globali con cui ci confrontiamo: ambiente e riscaldamento globale, povertà e sottosviluppo, emergenze migratorie. E gli stessi conflitti regionali limitati sono a loro volta influenzati da queste sfide che ne amplificano gli effetti. La Cina è probabilmente in grado di influire positivamente, almeno in parte, nelle crisi in Ucraina e in Medio Oriente, ma a tal fine potrebbe reclamare alcune contropartite come, ad esempio, il riconoscimento di uno status paritario con gli Stati Uniti – la creazione di un vero e proprio G2 – o una minore assertività americana su Taiwan o l’allenamento delle politiche commerciali che essa considera ostili. Ritengo che l’utilizzo degli aggettivi più appropriati sarà basato non soltanto sulla capacità di collaborazione o sulla conflittualità nelle crisi locali, ma soprattutto di fronte alle sfide globali.

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