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Wenders e la difficile poesia del 3D

L’ultimo film di Wim Wenders, dedicato alla grande coreografa Pina Bausch, ha diviso non poco gli spettatori, soprattutto per l’adozione di una tecnologia sofisticata come il 3D, di solito usata per blockbuster d’azione o cartoni animati. Per qualcuno un inutile sfoggio di effetti speciali che aggiungono ben poco all’evocativa poesia della danza, per altri un primo tentativo di usare creativamente le possibilità offerte dal nuovo formato. Dato che il cinema è un’arte industriale è normale che un regista molto attento alle qualità poetiche dell’immagine si lasci tentare da una tecnologia che può garantire effetti pittorici tridimensionali.
 
Pina mostra che la qualità grafica del 3D sembra nata per essere usata al servizio di immagini contemplative o evocative, slegate da ogni narrazione: la danza con la sua centralità del corpo e del movimento è l’arte più indicata ad esaltare le qualità dinamiche di un simile tipo di cinema. Nonostante ciò, il risultato estetico più compiuto nell’utilizzo poetico del 3D è ancora quello ottenuto da Cameron nel suo Avatar.
Tralasciando l’universo sempre più articolato di cartoon e videogame, finora nel cinema solo tre autori si sono cimentati con questo formato: Cameron, Tim Burton col suo Alice e, appunto, Wenders. Le differenze fra i tre non sono tanto quelle tra cinema europeo e americano: la danza di Wenders è altrettanto spettacolare e fragorosa dei voli su Pandora o delle corse sfrenate per la Wonderland burtoniana. Cameron, più degli altri due, sembra aver pensato e vissuto il 3D come possibilità sempre presente nel cinema e prima ancora nell’arte figurativa occidentale. Pandora infatti più che un mondo che fuoriesce dallo schermo nel reale è una specie di vortice che risucchia lo sguardo dello spettatore. Grazie al 3D, qualità pittorica, dunque surreale, dell’immagine e iperrealismo coincidono, venendo separati dallo spettatore solo dopo la visione del film.
 
Burton e Wenders invece, al di là degli ottimi risultati espressivi raggiunti, hanno il limite di pensare questo formato come un’espansione di un’opera nata bidimensionale. Per questo, nonostante uno si affidi a un classico quasi antinarrativo come Alice nel paese delle meraviglie e l’altro alla pura energia fisica della performance coreutica, sottolineano entrambi molto di più il discorso metacinematografico.
Ad esempio, è evidente che Burton pensa alla sua Wonderland come un universo a cartoni animati o in stop-motion e usa il 3D per renderlo più consapevolmente “cartoonesco”, dunque straniante. Anche Wenders non sempre si lascia andare alle possibilità del 3D e sembra più interessato a costruire un curioso effetto-teatro, riprendendo i suoi ballerini più volte alle spalle di un’ipotetica platea, o inserendo digitalmente le vere coreografie di Café Müller in un teatrino di burattini, una referenza quasi letterale del Bergman di Fanny e Alexander. Come e più di Burton, Wenders sembra utilizzare il 3D da un lato per rinnovare la sorpresa dell’immagine cinematografica, ma dall’altro per sottolinearne la falsità, la natura fantasmatica. Proprio per questo in Pina non arriva ancora a trovare una sua cifra rispetto a quanto offertogli dal medium.
 
Indice delle cose notevoli:
* Il trailer di Pina di Wim Wenders;
* Un volume che fa il punto sul rinnovamento dell’immagine cinematografica: Mario Gerosa, a cura di, Cinema e tecnologia. La rivoluzione digitale: dagli attori alla nuova stagione del 3D, Le Mani, Genova, 2011;
* Il trailer di Avatar di James Cameron;
* Christopher Nolan, in un’intervista al sito collider.com, spiega perché non ha voluto girare Inception in 3D.


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