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Durov, Zuckerberg e i social. Perché il tema della libertà di espressione è fuorviante

Di Roberto Caporale

Sostenere che limitare l’attività dei social media in nome della libertà di espressione sia un errore è come affermare che limitare la circolazione delle manette comprometta la libertà individuale. Il commento di Roberto Caporale

L’arresto di Durov a Le Bourget solleva molti interrogativi sia per i motivi che lo hanno condotto a consegnarsi, di fatto, alle autorità francesi, sia per le implicazioni che la vicenda porta con sé. Il dibattito che ne è scaturito, in un contesto di carenza informativa, è intrappolato nelle congetture di esperti variegati o strumentalizzato in malafede. Ma la questione si può analizzare sinteticamente da due prospettive distinte.

La prima è tecnica: Telegram, come altre piattaforme criptate, è impiegato per scopi criminali o strategici, ed esiste il problema di come rispondere a questo tipo di utilizzo. Il tema è molto più chiaro di quanto comunemente si voglia ammettere. Telegram si è sviluppato in contesti comunicativi in cui, per vari motivi, si ritiene che i contenuti dei messaggi non debbano essere letti da un’autorità o da un soggetto geopolitico ostile; è gratuito e il suo bilancio è in perdita nonostante abbia superato i 900 milioni di utenti.

È del tutto ovvio, dal punto di vista della sicurezza nazionale, porsi il problema di chi controlla una piattaforma simile. Ed è altrettanto ovvio che da ciò possano dipendere le scelte su come trattare tale strumento, salvo che ci si trovi a Paperopoli o a Topolinia. La relazione tra le autorità russe e Durov, ad esempio, è sicuramente più complessa rispetto alla sua rappresentazione purissima di paladino della libertà di espressione antiputiniana. La gita in Azerbaigian e il blocco del 2021 delle App di smart voting di Navalny ne sono forse due indicatori. Di sicuro, il mondo è molto complicato.

Porsi il problema della “libertà di espressione” e della sua violazione nell’attività di controllo strategico di tali piattaforme è fuorviante: non si comprende, infatti, perché tale libertà non possa essere tutelata da altre piattaforme di comunicazione criptate, come WhatsApp ad esempio. Questo è un brutto discorso, certo, che somiglia tanto al “male non fare, paura non avere” delle dittature. Ma senza di esso non si coglie il punto centrale della questione, che sorge quando uno strumento viene utilizzato massivamente per fini geopolitici ostili. Questo problema non può essere ignorato né può essere affrontato esclusivamente in termini giuridici o giudiziari perché è una questione strategica.

Esistono numerosi strumenti di comunicazione criptata per scopi professionali, e i migliori al mondo sono sicuramente quelli italiani. Tuttavia, a differenza di Telegram, questi non sono disponibili per chiunque ma solo per chi ha un bisogno legittimo e, in termini reputazionali, dà ragionevoli garanzie circa il loro uso. Invadere il mercato con questi prodotti sarebbe probabilmente redditizio ma non si fa.

Far finta che non esista il problema dell’uso di Telegram per scopi criminali o di disinformazione antioccidentale è pura ipocrisia. Le domande sul perché Telegram sia la piattaforma preferita e perché la Francia sia stata il teatro di questi eventi sono legittime, ma per ora si possono formulare solo risposte congetturali, che non sono il nostro mestiere. Di certo, se crei un sistema di comunicazione criptata e ne detieni i server, e questo sistema viene utilizzato per attività che mettono in pericolo la sicurezza nazionale di qualcuno, prima o poi questo “qualcuno” ti chiederà conto di quei dati. È la geopolitica, bellezza.

La seconda prospettiva, più generale, investe le implicazioni strategiche legate all’uso dei social media, con riferimento alla loro capacità di manipolazione simbolica. Qualcosa che supera di gran lunga la possibilità, per esempio, di modificare operativamente l’esito di un’elezione: si tratta di alterazioni del funzionamento biochimico della mente, con conseguenze rilevanti in termini di percezioni, convinzioni e intenzioni. L’uso dei social media è, in sé, alla base dell’allarme circa la libertà di espressione, secondo il quale saremmo praticamente in una nuova era di censura, in cui anche le comunicazioni private sono regolarmente intercettate e utilizzate da un’autorità maligna.

È il tipico scenario popperiano di teoria cospirativa della società, di natura omerica, che ormai satura il discorso pubblico: è di questi giorni la teoria che il Bayesian sia stato affondato da non si sa quali onde elettromagnetiche fantasmagoriche, una sorta di nuovo mussoliniano “raggio della morte”. Si tratta di folklore.

Un esempio pericoloso di questa logica è, invece, emerso con la lettera che Mark Zuckerberg – avendo forse fiutato il vento – ha inviato al Congresso Usa, nella quale ammette che Meta ha subito pressioni governative riguardo alla gestione delle informazioni sul Covid-19 e su presunte fake news asseritamente legate alla disinformazione di origine russa.

Ma un governo, in una situazione di emergenza globale senza precedenti come quella della pandemia, può legittimamente esercitare pressioni (non dare obblighi, attenzione) sul più potente strumento di comunicazione mai esistito nella storia dell’umanità, affinché questo limiti i danni della disinformazione, siano essi conseguenza di misure attive russe o semplicemente frutto delle tragiche semplificazioni dei frustrati teorici del complotto? La risposta è sì: non c’è nulla di strano né di sbagliato in questo. Diverso è il caso in cui tali pressioni siano state esercitate per tutelare interessi politici di parte. Bisogna sempre distinguere: gridare alla minaccia democratica senza considerare la complessità del reale non ha senso.

I meccanismi intrinseci al funzionamento dei social media sono finalizzati alla manipolazione, non alla tutela della libertà di opinione. Sostenere che limitare l’attività dei social media in nome della libertà di espressione sia un errore è come affermare che limitare la circolazione delle manette comprometta la libertà individuale.

Il problema della disinformazione è una questione strategica fondamentale: nello spazio digitale è in corso una guerra cognitiva da anni, e occorre assumersi la responsabilità di accettare un nuovo jus in bello.

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